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vennero a chiamarla: Laura aveva un'altra sincope. Il domani venne il dottore, parlò a lungo col nonno; poi questi mandò a Milazzo il giardiniere, per spedire un telegramma. La risposta arrivò a Miss: «Parto col postale di domani, sarò costà sabato, fate trovare carrozza sbarcatoio.»

       — È il babbo che viene, nonno? — chiese ella, impaurita.

      Il nonno non rispose, inginocchiato dinanzi alla cassetta bassa di una libreria, donde cavava vecchi giornali illustrati, che erano lo svago della malatina. Messili in ordine, glie li recò, reggendoli lui stesso dinanzi al letto, sfogliandoli, girandoli per mostrare le figure disposte di fianco.

      — Basta, nonno... così ti stanchi... — diceva Laura tratto tratto.

      — Non mi stanco... se mi stancassi, mi riposerei!... — E come la vedeva sorridere, chiedeva: — Tu come stai?... Meglio?... Senti adesso una cosa... — Tacque un poco, poi riprese: — Se venisse qui... tuo padre... ti piacerebbe?

      L'inferma spalancò gli occhi, come stordita.

      — Tuo padre... di', ti farebbe piacere?

      — Oh, nonno, il babbo!... Nonno, il babbo!... — e non sapeva dire altro.

      — Il babbo, sì: parlo turco forse?... Se ti fa piacere, lo chiameremo...

      La poveretta piangeva di contento, gli gettava le braccia scarne al collo mormorando:

      — Grazie, nonno.... Com'è bello!... grazie!... grazie!...

      — Va bene, abbiamo inteso.... Cosa c'è da ringraziare?...

      E con la voce burbera, troncò il pianto e le effusioni della malata, la quale adesso diceva di voler aspettare il suo babbo levata. Malgrado ogni protesta, il giorno dell'arrivo si alzò. Avevano calcolato che la carrozza sarebbe giunta alla Rocca verso le due; a quell'ora volle scendere in giardino. Però il tempo passava senza che arrivasse nessuno.

      — Che sarà?... — chiedeva inquieta.

      — Nulla, il ritardo del vapore!... — rispondeva il nonno.

       Ma non si tranquillava, porgeva l'orecchio, guardava il mare.

      — C'è stato cattivo tempo?... Il cocchiere non lo conosce... Gli avete detto di andare proprio al porto?...

      Era nervosa, insofferente. Si ostinò ad aspettare ancora, sentì freddo, dovettero portarla su quasi a braccia; ma, appena a letto, perdette i sensi. A un tratto si udì un rumore lontano, poi una voce che chiamava, dei passi affrettati. Il babbo comparve sulla soglia dell'uscio, fermandosi ansiosamente. Il nonno, alzato un braccio, fece segno di far piano. Ma egli era già accanto al letto, con un braccio attorno al capo della bambina, cercando gli occhi di lei. Gli occhi di Laura si schiudevano allora, e la mano fredda e madida, abbandonando quella della sorella, tentava di carezzare il viso del babbo.

      — Come stai, Lauretta?... Come stai?... — chiedeva egli, alzando lo sguardo.

      — Meglio... — rispondeva il nonno, guardando l'inferma. — Stai meglio, non è vero?... È niente, adesso è passato...

      Ancora un altro miglioramento. Per prudenza, la fecero rimanere a letto; ma pareva così felice, col babbo da una parte, la sorella dall'altra, il nonno che girava per la camera, come avesse un gran da fare, ma senza far niente! Una mattina, presto, si alzò un poco, ma non potè scendere in giardino per il tempo che minacciava. Quando si rimise a letto, cominciò la pioggia, scrosciante; fu una burrasca di corta durata. Al tramonto, il sole brillava fra le nuvole squarciate, e Lauretta, serena, sorridente, ascoltava i progetti che facevano per l'avvenire.

      — Ma il babbo resterà un pezzo con noi, non è vero?... non è vero, nonno? — chiese, voltandosi verso di lui, che se ne stava appoggiato ai piedi del letto.

      — Si capisce.

      — Sì!... sì!...

      Sarebbero tornati a Milazzo, con l'autunno che s'avanzava; al Capo non c'era più ragione di restare. Poi, guarita Lauretta, sarebbero andati a Palermo, a Firenze, a Parigi, tutti, tutti!

      — Anche tu, nonno; non è vero?

      — Anch'io, eh!... — E come in quel momento entrava la moglie del fattore, aggiunse: — Anche donna Mara!

      Risero tutti. Calò la sera, mentre ancora facevano progetti.

      La luce della lampada infastidiva un poco Laura. Sollevatasi, disse alla sorella:

      — Teresa, coglimi dei fiori...

      — Subito, sorellina!

      Ella scese in giardino. Dalle piante, tutte bagnate dalla pioggia recente, esalava un profumo intenso, acutissimo. Sorgeva la luna, tra nuvolette d'oro, e la luce d'argento bagnava tutto quel verde scuro, umido e stillante. Disteso con una mano il grembiale, lei cominciò a farvi piovere i gelsomini che spiccava con la destra. Ne era quasi pieno, ma ne coglieva ancora, voleva coglierne ancora più; voleva seppellire la sorellina sotto la nevicata odorosa. Di repente s'udì un grido terribile. Ella tremò da capo a piedi, lasciò cadere i fiori, incrociò le mani sul petto. Un altro grido, dei rumori confusi. Allora ella cominciò a correre disperatamente verso casa, e nella corsa vide una finestra schiudersi, il nonno uscire sulla terrazza, alzare le braccia minacciose al cielo. Prese un nuovo slancio, salì a precipizio la scalinata, traversò come un lampo le stanze e s'arrestò sull'uscio. Intravvide una forma rigida sul letto, una gran macchia di sangue, e s'intese spingere indietro.

      — Babbo!... Nonno!... Babbo...

      — Zitta!... zitta!... Son'io, Stefana... Di qui... Chiudete! Zitta! Tuo padre...

      Allora, afferrata la mano del babbo in un impeto furioso, scoppiò in pianto alto, convulsivo, lacerante, con la bocca contorta, le mani tremanti, il petto rotto dai singhiozzi. Nella stanza buia, il riflesso della luna metteva un vago chiarore; ella non vedeva, non udiva, riprendeva a piangere più forte; in mezzo al pianto dirotto, mandava dei lamenti rauchi, sordi, rantolosi.

      — Teresa!... figlia mia... Coraggio!... Poveretta, ha ragione!

      Le mani dure, rugose, incallite, della moglie del fattore cercavano le sue, teneramente; Stefana la teneva stretta, la baciava in viso, confondendo le proprie lacrime con le sue.

      Portarono un lume, e come ella scorse Miss, sola, in un angolo, piangere silenziosamente, a capo chino, sentì un singhiozzo più violento squarciarle la gola, dischiuse la bocca come se una mano la soffocasse.

      — Teresa!... signorina!... figlia mia! — e Stefana balbettava, annaspando:

      — Bambinuccia!... Per carità... fàllo per tuo padre... Signore!...

      A un tratto ella si alzò.

      — Lasciatemi. Voglio vederla, l'ultima volta...

      Allora tutt'e tre le donne le si misero dinanzi, facendo barriera, scongiurando tra le lacrime:

      — Signorina!... Thérèse!... Per carità... Vuoi ammazzarti!...

      La fecero ricadere sul divano, raggomitolata, come un ammasso di panni, e i lamenti riprendevano, più sordi, più tristi.

       — Il nonno... — balbettava ella — il nonno...

      — Poveretto!... Anche lui!... Chi gli avrebbe detto che doveva vedere anche questo? Angeletto di Dio!... — esclamavano le donne, pietosamente. — E buona, come non ce ne saranno più al mondo.... mai e poi mai... Creatura buona!... Ora è in paradiso, a pregare per noi...

      Le strida e le querele si facevano più lunghe; ma quello che la straziava era il pianto muto, incessante di Miss. La notte passava: si udivano di tanto in tanto delle voci che chiamavano dal giardino, il portone della stalla che gemeva sui cardini, i cavalli scalpitanti nella corte, il canto lontano dei galli. Poi comparve il nonno, curvo, avvolto in un gran soprabito, cogli occhi asciutti. Ella gli s'afferrò, baciandogli la mano, bagnandola di pianto, spegnendovi sopra le strida che le uscivano dal petto. Anche il babbo gli strinse l'altra mano; lui disse:

      — Basta, basta... adesso basta... la volontà

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