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quindici; qualcuna delle sue amiche non la prendeva sul serio, la trattava quasi da bambina! Fino a vent'anni, non sarebbe cresciuta? Aveva tempo di rifarsi! Ne domandava al dottore, con l'ossessione di restar nana, lei che non ammetteva se non i personaggi slanciati. Così dava un bel da fare al calzolaio, non trovando mai i tacchi abbastanza lunghi, e la pettinatrice doveva risolvere ogni giorno il problema d'una acconciatura che fosse alta, ma non troppo. Però, gli artifizii riparavano male al difetto, e un giorno le salirono le fiamme al viso, quando Giulia Viscari le disse il sopprannome datole da Enrico Sartana.

      — Come mi chiama?

      — La pupa... dice che non gli fai l'effetto d'una donna, ma d'una bambola...

      Questo Sartana era il figliuolo del duca di Castrovecchio, ed aveva per suo conto il titolo di barone di Lerma. Ella lo aveva visto qualche volta da lontano, trovandolo simpatico; da quel momento, un odio le si scatenò nell'animo contro di lui. Lo aveva soprannominato subito San Giorgio cavaliere, con un tono d'ammirazione derisoria per la sua bellezza fade di biondo ricciuto cogli occhi cilestri.

      — Il cavalier San Giorgio che atterra il Dragone!... — ripeteva, quando lo vedeva passare a cavallo, caracollando. — O Dio, non svenite, solo a mirarlo?... È fatale!...

      — Sei spietata!

      — Non lo posso soffrire!... Se glie lo riferirete, mi fate un piacere!

      Ella se lo vide improvvisamente dinanzi, la sera che sua zia la condusse dagli Alì, dove si ballava: una felicità lungamente aspettata, il suo primo ingresso in un vero salone, dove tutti i giovanotti si contendevano l'onore di ballare con lei. Fu sul punto di dirgli che aveva tutto impegnato e di voltargli le spalle: ma egli era così grazioso, così elegante, che non si fidò. E con una disinvoltura di cui ella non aveva idea e che si lasciava mille miglia indietro i balbettamenti timidi degli altri, egli cominciò a parlarle, a farla ridere a proposito di tutti i tipi comici che si trovavano in quella società.

       — Ti sei lasciata addomesticare? — le chiese Giulia Viscari in un angolo.

      — O Dio, come resistergli?

      Però la sua ironia cominciava a non essere più sincera. Adesso non le riusciva di reprimere un leggiero sussulto, quando lo incontrava. Egli la cercava, tornava a ballare con lei, a darle il contagio del suo riso argentino, pieno d'una simpatia irresistibile, a guardarla con quegli occhi azzurri che dicevano: «Non è vero che siete una bambola; mi piacete!» Una domenica, uscendo di chiesa, la zia si fermò con una signora: era la duchessa di Castrovecchio, sua madre. Il giovedì seguente, venne a far loro visita.

      Ella comprese subito che era stata mandata dal figliuolo. Una gioia immensa le aveva allargato il cuore: il vago sospetto prendeva consistenza: egli era innamorato di lei! Nella voluttà del trionfo, ella beveva l'aria avidamente, si chiedeva: «È vero?» e si rispondeva: «È vero, è vero!» vedendo che egli non lasciava sfuggire un'occasione d'avvicinarla, che si trovava in casa quando andavano con la zia a restituire le visite a sua madre, che la seguiva sino per le strade. E dei feroci propositi di vendetta, alla Montecristo, l'animavano: voleva civettare con lui, fargli perdere la testa, lasciarlo struggere d'amore come i Reuzzi delle fiabe!... E lei? era sicura di non volergli bene anche lei?... Non lo trovava simpatico, elegante, spiritoso?.. Allora? Non importava, bisognava farlo soffrire. E spiegava con lui tutta la sua civetteria, si voltava a guardarlo profilando tutto il busto ed il viso, sollevando una spalla, stringendo le braccia ai fianchi, per mostrare tutte le linee del corpo; allungava talvolta un piede che egli divorava cogli occhi, ma che lei ritirava repentinamente dopo un poco, fingendo d'accorgersi a un tratto di quegli sguardi indiscreti; quando aveva vicina Giulia od Enrichetta, passava un braccio attorno alla vita dell'amica, le parlava all'orecchio, la baciava in viso, per tormentarlo con lo spettacolo di quelle carezze; al ballo, lasciava cadere un guanto, il fazzoletto, un fiore, qualche cosa tutta piena di lei, osservando di sbieco l'espressione appassionata con cui egli se ne impossessava per rendergliela. I loro incontri si venivano moltiplicando: riunioni in cui si faceva della musica e che poi finivano in saltate generali, feste in tutte le forme, dal principe d'Alì, dal marchese Carìbici; balli in maschera, veglioni al teatro. Tanti giovanotti ora le stavano intorno: ella sentiva la reputazione di bellezza, di eleganza, di spirito che la circondava; e nell'atmosfera calda e profumata dei saloni viveva come nell'ambiente vitale. Adesso lo studio noioso, pedantesco, era smesso del tutto: restavano la musica e la lettura: la musica che le assicurava dei trionfi quando, senza farsi troppo pregare, si metteva al piano e con una disinvoltura da concertista teneva tutta la sala intenta; la lettura che alimentava continuamente il lavoro della fantasia. Ella si ripeteva incessantemente: «Sono amata! Sono amata!» Sartana era innamorato di lei, tutti se ne accorgevano, Giulia glie lo ripeteva, scherzando, con allusioni continue! Ed ella lo amava, sì; malgrado i suoi propositi di freddezza, di crudeltà, lo amava: un fremito le passava pel corpo quando egli le si avvicinava; il cuore le batteva più forte quando parlava o danzava con lui, quando egli le stringeva la mano un certo modo diverso da quello di tutti gli altri, quando le diceva certe cose indifferenti con la voce piena d'un tenero turbamento... Il suo primo amore! Il suo grande amore!... Dei sorrisi di compassione le fiorivano sulle labbra pensando agli amoretti dei dodici anni, a Niccolino Francia, a Luigi Accardi, all'ufficiale di Messina. Sciocchezze, ingenuità da bambina!.. Adesso sentiva che il suo avvenire s'inpegnava, che la felicità della sua vita dipendeva da quell'amore. Ma lui, perchè non parlava? perchè non le diceva che le voleva bene?... Certe volte pensava al modo con cui glie lo avrebbe detto, alle parole divine che avrebbe trovate, al momento unico, misteriosamente propizio, che certo egli aspettava ancora di cogliere. Altre volte, delle difficoltà, degli ostacoli sorgevano nella sua fantasia: un dramma che scoppiava, dei dolori ineffabili, la morte che avrebbe potuto coglierla a un tratto!... Ella si vedeva, moribonda, con le mani affilate sulla coltre bianca: le donne singhiozzavano intorno, e a un tratto un rumore di passi, l'apparizione di una figura disfatta, spettrale: lui, fermo un istante sulla soglia della camera mortuaria. Un grido terribile gli lacerava la gola, e precipitandosi verso il letto, vi cadeva in ginocchio dinanzi, bagnando di lacrime calde la fredda mano scarnita ch'ella gli abbandonava. La funebre rappresentazione le si spiegava dinanzi con l'evidenza della realtà: sentiva le dita di lui errarle fra i capelli, vedeva i visi pallidi dei parenti, udiva le salmodìe degli agonizzanti; e delle lacrime le rigavano lentamente il viso. Ella piangeva sè stessa, i suoi sogni svaniti, la sua bellezza per sempre distrutta: si vedeva composta in una bara, bella ancora, ma pallida pallida, e fredda, come di marmo. Dei gigli sulla sua tomba... un uomo che si gettava bocconi sulla terra umida e scura... un lamento straziante... E restava così, a singhiozzare pianamente, intanto che il sole rideva e che un fragore di carrozze trascorrenti in lunghe file veniva su dalla via.

       Perchè quelle imagini tristi? Ella pensava d'esser una creatura provata dalle sventure, superiore per questo; dotata d'un cuore più sensibile, d'una fantasia più impressionabile, votata ad un destino più arcano degli altri. Ella leggeva i versi del Prati, del Leopardi, dell'Aleardi: v'erano dei passaggi che non intendeva, ma quanti altri che la facevano piangere!

      Poi si scuoteva, sorrideva delle sue angoscie senza cagione, tornava alla gaiezza consueta, passava da uno svago ad un altro, s'ingolfava in quella vita felice, senza cure, che era tutta una festa. Allora avveniva che, nell'animazione regnante tra le folle eleganti, nel tumulto giocondo destato dalla musica e dal ballo, ella si dimenticava di Enrico, ma interamente, completamente, come se egli non fosse mai esistito, tutta al proprio trionfo, inebbriata dagli omaggi dei giovanotti, dai complimenti delle amiche, dalle sussurrazioni ammirative che sorprendeva al proprio passaggio. Vi erano tanti altri che decisamente le facevano la corte, Lollò Cutelli, un marchesino ricchissimo ma un po' grullo, Antonio Bracciaferri, ufficiale di cavalleria che aveva lasciato il servizio e che lei metteva in caricatura, rifacendo i suoi «cosa?» e i suoi «sfido!», il cavaliere Sibiliano, sulla quarantina, buffo con le sue pretensioni giovanili, ma però molto corretto; tanti e tanti altri ancora, a cui ella badava volta per volta, quando li aveva a fianco, studiandosi di montar loro la testa, ma che a distanza si confondevano in una massa; in un coro, dove ella non distingueva, non sceglieva... Sì, vi era uno a cui ella pensava più che agli altri: Mario Caimi, la cui nascita non era molto distinta, ma che aveva, con una ricchezza straordinaria, una fama di rompicollo coraggioso, di viveur à outrance.

       — Caimi

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