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padre viaggiava in quel momento; quando tornò s'incontrarono ancora; un giorno ella andò a desinare da lui, Miss non aveva più la consegna d'opporsi. Ma in presenza della donna che aveva fatto soffrir tanto la sua mamma, che aveva distrutta la sua famiglia, ella sentì risvegliarsi il rancore antico. Colei le prodigò delle carezze, delle moine; ella restò tutta fredda sotto quei baci. Suo figlio, che adesso aveva sette anni, era un ragazzo malavvezzo; fece mille monellerie, guardandola di traverso; a lei non entrava in mente che fosse suo fratello. Il babbo era sempre così compito e così contenuto come un estraneo, e le dava tanta soggezione che, potendo, ella evitava di tornare in quella casa.

      La zia era molto legata con la contessa di Viscari; la figlia di lei, Giulia, le ispirò una simpatia istintiva; dopo pochi giorni strinsero amicizia. Giulia era bruna, alta, un po' irregolare in viso; ma piena d'espressione, vivace, briosa; ed elegante, aristocratica fino alla punta dei capelli. Ella sognava di farsene un'altra sorella; e a poco a poco il suo sogno si mutava in realtà. Malgrado la sapesse venuta dal fondo d'un paesuccio di provincia, Giulia le chiedeva dei consigli, faceva un gran conto dei suoi giudizii: si scoprivano dei gusti identici, gli stessi ideali. Però le lodi che l'amica le prodigava per la sua bellezza, per la sua coltura, pel suo spirito, non la rassicuravano molto; ella guardava le altre signorine della società palermitana con una timidezza secreta, pensando che dovevano essere tanto superiori a lei.

      — Come t'inganni! — esclamava Giulia. — Ti farò conoscere io una che fa per te.

      Era Bice Emanuele: una ragazza pallida, malinconica, senza mamma come lei. Ma quanto buona e intelligente! Tutt'e tre, si giurarono un'amicizia eterna; più tardi, Enrichetta Geremia, la figlia del conte di Tolosa, entrò nella loro piccola côterie. Ella voleva a tutte un bene dell'anima; soffriva e gioiva per esse più che per sè stessa: imaginando la morte di una di quelle dolci compagne, si diceva che avrebbe portato il lutto come per una sorella.

      Quando non era con le amiche, ella passava il suo tempo studiando. Non s'era trovato ancora un professore di lettere; venivano invece i maestri di musica e di disegno. Per riposarsi dallo studio, lavorava con la zia a dei minuti ricami, alle frivolità.

      Lo zio leggeva continuamente dei romanzi che mandava a prendere da un gabinetto di lettura o che gli prestavano i suoi amici. Ve ne erano degli antichi in uno scaffale confinato in una retrostanza; ma la zia le aveva proibito di toccarli. Per un certo tempo ella obbedì; poi la tentazione fu più forte; non poteva mica restare le intere giornate a pianoforte, o dinanzi al cavalletto, o a ripassare con Miss delle lezioni che sapeva a memoria. Prese così qualcuno di quei volumi e lo divorò di nascosto.

       Vi erano i Tre Moschettieri, in francese, un'edizione a due colonne con delle illustrazioni in legno. Restò come intontita da quella lettura; per un pezzo, in tutti gli uomini che vedeva cercava delle rassomiglianze con qualcuno degli eroi del libro. Che simpatia!... Però, Porthos era un poco volgare e Aramis infinto, quantunque avesse una gran cura della propria persona — ed ella provava a tener le mani alzate, per farle venire più bianche, come faceva il moschettiere. D'Artagnan sarebbe stato il più simpatico senza certe cose un po' troppo buffe: e lei non voleva ridere. Athos, nobile, cavalleresco, malinconico, aveva tutte le sue preferenze. Ella pensava che vi dovessero essere ancora degli uomini così disinteressati, così arditi, così eroici, sempre pronti a metter mano alla spada, a sfidare ogni pericolo, per il sorriso d'una donna, per un capriccio, per una fantasia... Vi erano dei volumi di Paul de Kock; li aveva letti ridendo, buttandoli poi in un canto, indispettita contro sè stessa. Non glie ne rimaneva nulla, tranne la seduzione della vita parigina. Aveva messo le mani sopra Giuseppe Balsamo e sopra il Conte di Montecristo, la sua meraviglia, il suo piacere crescevano a dismisura; ella viveva di quelle letture, dimenticava per esse le amiche, le distrazioni, l'appetito. E i Misteri di Parigi! I Miserabili! Però la parte filosofica di questo romanzo le seccava un poco. C'era ancora del Féval, del Bernard, del D'Arlincourt; ella divorava tutto, fremente di curiosità, di emozioni soffocate. Imaginava vagamente i luoghi descritti, vedeva gli eroi presentati dai romanzieri, s'innamorava di Rodolfo, di Mario; e il ricordo di Luigi Accardi finiva di dileguarsi. Sulla fede di quei libri, ella sognava fatalità inesorabili, eroismi inauditi, strazii ineffabili, gioie celesti. Tutte le predizioni si avveravano, gli uomini lottavano invano contro il destino; ma l'amore infiorava la vita, era il compenso di tutte le pene. Che importavano le ricchezze? V'erano dei giovani che sotto un vestito lacero avevano un cuore di eroe; e poi, essi le acquistavano, le ricchezze e le posizioni altissime, perchè ne erano degni! Se fosse stato uno di questi il professore che le avevano trovato finalmente?...

      Il professore era un uomo d'età: corto di statura, con una foresta di capelli e gli occhiali d'oro. Aveva preso a spiegare Omero e Virgilio; ma quello studio, malgrado lo zelo che vi spiegava, non le riesciva gradito. Tutta quella gente era troppo antica, troppo diversa da quella che ella vedeva od imaginava: e confondeva i nomi, incontrava troppe parole difficili, non le era entrato in mente quale dei due autori fosse il latino e quale il greco.

      La storia le piaceva di più; sopra tutto la moderna, quella del riscatto nazionale; e le gesta dei Savoia, la magnanimità di re che avevano cimentato il trono per dare una patria agl'Italiani, di principi che avevano pugnato pel loro paese, le davano dei fremiti d'entusiasmo.

      Con piacere più grande svolgeva i temi dei componimenti, ne riceveva arrossendo le lodi dal professore, il quale, alle domande dello zio, rispondeva:

      — Va bene, molto bene... anzi troppo!... C'è troppa fantasia!...

      Ella descriveva a lungo, minutamente, dei campi di battaglia, delle foreste vergini, dei naufragi, tutte cose che non aveva mai viste, ma delle quali si formava un'idea. La lettura dei romanzi le dava molto aiuto; ma il professore, un pedante, cancellava delle frasi che ella aveva viste stampate, che le parevano piene d'eleganza e d'efficacia, e che lui dichiarava infranciosate. Ella scriveva: la vita sentimentale, e il professore correggeva: la vita del cuore e della mente. Però, tornava con nuova lena alle sue letture; le osservazioni del maestro, i rimproveri dei parenti glie le facevano amare di più.

      — Lascia stare cotesti libri — diceva la zia. — Ti guasteranno la testa...

      — Perchè? Come se io non sapessi qual'è la finzione e quale la verità!...

      E voleva sapere se il cavaliere di Maison-Rouge era realmente esistito, se la storia di Montecristo era vera; nella carta geografica, cercava l'isoletta, avrebbe voluto andarvi qualche volta.

      Adesso conosceva mezzo Sue, del Balzac che trovava però troppo lungo, quasi tutto Walter Scott. Il ricordo della sua povera sorellina morta la sorprendeva certe volte in mezzo alle imaginazioni suggerite da quei libri: allora, era una mestizia dolce, una malinconia soave che la prendeva, rassomigliandola a qualcuna delle eroine belle e infelici di cui ella si faceva come dei modelli, come delle maestre di vita, con l'ambizione di essere secretamente approvata da loro in ogni atto ed in ogni pensiero. Il dolore acuto e lacerante dei primi tempi si risolveva sempre più in un rimpianto rassegnato, in un ricordo pieno di tenerezza: la sorellina sua non viveva forse in lei, nel suo spirito, non l'accompagnava forse sempre e dovunque, memoria buona e protettrice?...

      Così, passato il tempo del lutto, malgrado avesse espresso il desiderio di portare ancora le vesti nere, obbedì all'ingiunzione della zia e le smise.

      Allora cominciarono ad andare al teatro di prosa: un'altra sorgente di emozioni più forti: la Signora delle Camelie, Kean, la Morte Civile, Celeste. Quando venne la compagnia di Amilcare Baretti e l'attore Roggi rappresentò il Falconiere, ella tornò a casa colla testa in fiamme. Nessun uomo le pareva più bello di lui, la sua voce, quand'egli parlava d'amore la faceva tremare. Tutte le volte che aveva in mano il manifesto, correva cogli occhi a cercare il suo nome; se non lo trovava, la scena le pareva deserta, lo spettacolo insoffribile. Ella supponeva che l'attore si fosse accorto della febbre con cui ella lo ascoltava, imaginava che egli avrebbe cercato di vederla da vicino, architettava tutto un romanzo. Un giorno, passando dai Quattro Canti, vide, in una mostra di fotografo, i ritratti dei principali attori, il suo fra gli altri. Sempre che ripassava di lì, il cuore le batteva più forte mentre gli occhi cercavano quell'imagine; lungo tempo dopo che la compagnia se ne fu andata continuò a guardarla, fin quando

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