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o «che facevano scordare tutte le altre!» Ora più di prima, ella restava lungamente allo specchio, guardandosi. I suoi capelli erano come d'oro, le scendevano fin sulla vita; il viso pareva quello della prigioniera della Mamma Draga: bianco come neve, rosso come fuoco. Ma ella era disperata, perchè fra i denti bianchissimi ne aveva uno storto ed annerito. Era inutile pulirlo, strofinarlo con le polveri: non sbiancava; e la lingua le correva sempre lì. Certe volte, dopo essere rimasta un pezzo con la bocca aperta, a guardarlo, si diceva: «Infine, non è poi tanto scuro: non si vede, quasi.» Ma la notte sognava d'averlo nero come un pezzo di carbone, sentiva che glie lo tiravano, forte forte, senza riuscire a strapparlo; e, dall'angoscia, si destava. Un'altra angustia era per la statura. Piccina, tutti si meravigliavano del suo sviluppo straordinario; invece, da dieci a quattordici anni, era quasi restata la stessa. Aveva ancor tempo di crescere! — le diceva Stefana. — Ma se fosse rimasta nana?... Ella non pensava che al tempo in cui sarebbe stata una signorina per davvero; spingeva indietro i giorni e i mesi col pensiero, quasi avrebbe voluto ancora numerare dei ciottolini e buttarli via periodicamente, ad uno ad uno, per vedere diminuire il tempo che le restava dinanzi fino ai diciassette anni, fino ai sedici — bastavano! — delle ragazze del popolo non s'erano maritate anche a quindici?

      — Ma bisogna esser donne... — le disse Maria Ferla una volta, misteriosamente, senza volersi spiegare.

      Però, ella era cominciata a star male: dei capogiri, un'emicrania fitta che non la lasciava; e una mattina, svegliandosi, vide tutti intorno al suo letto: il nonno, Laura, Miss, Stefana, il medico; e delle bottiglie, dei vasetti sul comodino, con un odore di spirito e d'aceto diffuso per la camera.

      — Cos'è?... Cos'è stato?

      — Nulla!... Non è nulla...

      Aveva avuto delle convulsioni terribili — le raccontò poi Stefana — s'era contorta, afferrata alle barre del letto, e due uomini non avevano potuto strapparla di lì.

       Il male la riprendeva ancora a intervalli, e come i sintomi si aggravavano ella cominciava ad aver paura.

      — Non è nulla, sciocca... Siamo tutte così!

      L'ammalata era sempre Lauretta, impressionabile ad ogni soffio d'aria, sempre fra letto e lettuccio. Per causa sua, ella doveva spesso sacrificare qualche svago, rinunziare a incontrar Luigi Accardi; e com'era impaziente che passassero le feste alle quali non poteva prender parte! Certe volte; quando il suo proprio malessere cresceva, si sentiva vincere da una grande insofferenza, in quella casa così piena di noia. Piangeva, dicendosi che era orfana, costretta a vivere in quel paese, a subire le astiosità di Miss. Perchè non aveva più la sua mamma?

      Rammentandosi le parole del nonno: «Povere piccine, esse non sanno quel che hanno perduto», riconosceva adesso che egli aveva avuto ragione: ora soltanto cominciava a comprendere che cosa fosse non trovarsela accanto! E restava lunghe ore in contemplazione dinanzi al suo ritratto, fatto da un gran pittore, a Firenze. Com'era bella! Quegli occhi, come parlavano, come dicevano la dolcezza del cuore! Ella la chiamava: «Mamma, oh mamma mia!...» e al ricordo confuso del bene che le aveva voluto, di certi abbracci fitti, furiosi, che le aveva dati, di certe parole che le aveva dette all'orecchio, scoppiava in pianto, sentiva che niente poteva più consolarla. Ma pensando che senza i dolori che le avevano procurati, la poveretta non sarebbe morta così presto, così giovane, nel fiore degli anni, le sue lacrime cessavano di scorrere, un rancore le invadeva l'anima contro quelli che l'avevano fatta soffrire. La sera, quando Stefana sedeva al suo capezzale, ella le chiedeva di narrarle quella storia, di dirle perchè il babbo se n'era andato di casa, perchè s'era presa un'altra moglie. Stefana non voleva rispondere, o diceva: «E stata colpa di quella femminaccia», però, a proposito di altre cose, ella le strappava qualche notizia. Il nonno aveva cinquant'anni, aveva preso moglie giovanissimo; ed anche la povera mamma era stata maritata da lui a sedici appena, senza che ella neppur conoscesse il suo promesso; le prime liti anzi erano scoppiate fra lui e il nonno per quistioni d'interesse. La colpa era anche del barone, che voleva sempre far troppo di suo capo. Poi un altro sbaglio era stato quello di andarsene via da Milazzo, di girare pel mondo. La mamma, poveretta, aveva creduto di far meglio, a contentar suo marito; ma quanto se n'era pentita! Bastava dire che dai dispiaceri avuti durante la gravidanza di Laura, la piccolina era nata così malaticcia. Poi il babbo l'aveva lasciata, s'era presa un'altra moglie mentre lei era ancor viva!... Adesso ella comprendeva perchè il nonno l'avesse con lui! e adesso si spiegava le scene di Firenze, le continue liti, l'arrivo del nonno; adesso capiva che quel giorno in cui ella aveva fatto la cattiva perchè non s'andava a teatro, era accaduta la quistione più grossa dopo la quale il babbo era andato via.

      Povera mamma! Ella si struggeva al pensiero delle lacrime che avea versate; ma, compiangendola, non riusciva a capire perchè poi s'era presa tanta pena per uno che l'aveva così maltrattata! Senza saper bene che cosa avrebbe fatto lei stessa, si diceva: «Se fossi stata io!...» Poi, paragonando alla mamma quell'altra donna vista a Palermo, non capiva neppure come il babbo l'avesse preferita: era più vecchia, più brutta! Che cosa aveva ordito colei, per stregarlo così? E allora si rammentava delle opere dove c'erano delle passioni strane e fatali, delle fiabe dove si narrava la potenza di certi incantesimi.

      Per lei, che cosa avrebbe fatto Luigi Accardi? Lo vedeva passare sempre sotto le sue finestre; la domenica, a messa, si sentiva guardata continuamente; e quello sguardo l'attirava, la turbava. Era un turbamento come quello che aveva provato pel conte Rossi, per Bianca Giuntini; ma più profondo, più intenso. Niccolino le correva appresso anche lui; ma ora non le piaceva più. Quando qualche ragazza andava a marito e Stefana, nel commentar la notizia, diceva: «Per voialtre ci pensa vostro nonno», ella sorrideva tra sè: l'imagine di Luigi si faceva più viva, più presente; ella gli parlava: «Non dubitare, avranno da fare i conti con me!» Quando non poteva vederlo, quando non la lasciavano andar fuori perchè non si distraesse dallo studio, ella si sentiva sacrificata, gli chiedeva perdono in cuor suo, e pensava: «Se ci lasciassero sempre insieme, come contenterei il nonno e Miss! come studierei di più, da mattina a sera!» S'irritava, a sentirsi trattata come una bambina, a vedersi attraversata nei suoi giusti desiderii, quello dell'abito lungo, per esempio; e adesso le sue impazienze erano più acri, i suoi rancori più ostinati. Certi giorni aveva delle voglie di piangere, di gridare, di picchiare, anche d'esser picchiata; non potendo far altro, aveva preso l'abitudine di scalfirsi con l'unghia del pollice i polpastrelli delle altre dita; grattava fin quando la pelle si staccava e il sangue trapelava: malgrado il bruciore, non smetteva. Spesso se la pigliava con Laura, per una cosa da nulla, per qualche parola od anche senza ragione; una volta che la sorella aveva buttato inavvertitamente il calamaio sopra un suo ricamo, le si scagliò contro, gridandole: «Assassina!» e tempestandola di pugni, con la gola stretta, una fiamma dinanzi agli occhi... Il furore del nonno! E il pianto della pace! Come i singhiozzi le strozzavano le parole con le quali ella voleva dire alla sorellina il bene che le voleva!

      — Quanto!... Quanto!

      Allora si rammentava quel che le aveva detto la mamma: «Vorrai sempre bene alla tua sorellina? Sarai sempre la sua protettrice?...» e col cuore traboccante di tenerezza, la prendeva in disparte, l'abbracciava, le diceva i suoi progetti per l'avvenire: che sarebbero state sempre insieme, si sarebbero maritate lo stesso giorno, e avrebbero avuta una stessa casa, cioè due quartieri sopra uno stesso piano, cogli usci dirimpetto; e la stessa sarta, la stessa pettinatrice, un palco insieme a teatro.

      — Vedrai come ci divertiremo! Come guarirai di tutte le malattie!...

      Intanto era Laura che proteggeva lei, che le otteneva dal nonno ciò che non le riusciva di strappargli lei stessa: la prima veste lunga, una veste di stoffa azzurra, con un cappellino di velluto: una bellezza! Però, bisognava metterla soltanto nei giorni di festa, nelle grandi occasioni; e questo la seccava. Così, quando doveva andare in un posto dove era sicura d'incontrare Luigi, prima che Miss le dicesse qual veste dovesse mettere, ella correva all'armadio, ne toglieva quella di stoffa, se la passava in un lampo, e disarmava poi il nonno a furia di baci, di salti, di paroline all'orecchio e di battute di mano.

      Spesso usciva sola, perchè la sorellina stava poco bene, aveva lo sviluppo difficile. Una volta che le glandole del collo le gonfiarono, il dottore ordinò l'applicazione delle sanguisughe. Che orrore! che orrore! Ella avrebbe preferito morire piuttosto che lasciarsi attaccare al

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