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scongiurando il nonno di accordare una dilazione, asserendo che era necessario per la salute di Lauretta, promettendogli tutte le sue carezze e i suoi baci se diceva di sì. E degli altri giorni scorrevano, tra i passeggi, gli spettacoli, gl'inviti a pranzo. Una volta, alla Marina, la loro carrozza s'incrociò con quella del babbo: aveva a fianco una signora bruna, un po' grassa, colle guancie bianche di cipria e dei grossi smeraldi alle orecchie. Guardò le bambine, sporgendosi di scatto: lei s'irrigidì, guardandola fiso, duramente, comprendendo che era quella per cui la sua mamma aveva tanto sofferto. Ma la sera, a teatro come rappresentavano la Lucia di Lammermoor, non ci pensò più: adesso non sapeva quale delle due opere fosse la più bella. Quella comparsa di Edgardo in mezzo alla festa di nozze! e la sfida dei due rivali! e la scena delle tombe: «Tu che a Dio spiegasti l'ale!...» I motivi più belli le restavano tutti impressi; nel cantare: «Verranno a te sull'aure i miei sospiri ardenti...» delle lacrime le scorrevano sulle guancie.

      Gli ultimi giorni passarono nelle visite di congedo, nelle compre di tanti minuti oggetti da portare a casa. Le signore volevano sapere dalle ragazze se lasciavano Palermo con dispiacere; ella rispondeva:

      — Non me ne parli!...

      Ed alla cameriera della zia che le chiedeva quando sarebbe venuta un'altra volta:

      — Presto!... — rispondeva. — Vi pare che io voglia stare in quella bicocca?

      Allora, mentre la donna rassettava la camera, ella cominciò a interrogare:

      — Sentite: quanto vi dà la zia ogni mese?

      — Trenta lire.

      — E al cuoco?

      — Settantacinque.

      — E al cameriere?

      — Altre sessanta.

      Si mise a far dei conti a memoria, poi chiese chi fosse il miglior tappezziere, quanto costasse un quartiere sul Corso.

      — Ma che cosa le importa di questo?

      — Faccio i miei conti, — esclamò — perchè debbo metter casa anch'io!...

       Indice

      A Milazzo era arrivato il figliuolo del barone Accardi. Usciva da un collegio di Napoli, e non si ripetevano che lodi per la sua intelligenza e per la sua sveltezza. Poteva avere diciotto anni, ma era lungo quanto un uomo, e delicato, magro, simpaticissimo.

      Come aveva portato una macchina fotografica, non gli lasciavano un giorno di riposo: parenti, amici, conoscenti, persone di servizio, ciascuno voleva il ritratto. Una volta si fece un gruppo di venti ragazzi; col capo nascosto sotto il manto nero, egli ammattiva, gridando:

      — Fermi quelli lì!... Voialtri a sedere per terra... Più alta la testa, quella signorina a sinistra!... no, di qui, alla mia sinistra... Niccolino, vieni più innanzi... Fermi un momento!... Quella signorina non si muova, quella lì, dico...

      Lei che studiava la sua posa, voltandosi da tutti i lati, alzando ed abbassando il capo, squassando i capelli, si confuse un poco; poi disse, impettita:

      — Va bene così?

      — Va bene... ma fermi tutti gli altri!... Non ne facciamo niente!...

      Venne fuori, sudato, sbuffando, e cominciò a metter lui a posto la gente. Giunto vicino a lei, le prese il capo fra le mani, fermandolo nella posizione giusta: ella si fece rossa. Adesso, nascosto di nuovo sotto il manto, gridava: «Fermi tutti!...» e cavava il tappo della lente; per non venire troppo di sbieco, lei si voltò impercettibilmente.

      Quando la fotografia fu incollata sul cartone e ciascuno potè vederla, scoppiarono le lagnanze; ma Luigi Accardi protestava:

      — Se non volevano sentire!... Chi è stato fermo è venuto bene!... La piccola Uzeda guardate!... invece, la grande...

      — Brrr!...

      Ella scoppiò a ridere, vedendosi con tre teste annebbiate.

      — Se non stava ferma un momento!... — protestò lui, arrossendo.

      Però volle fargliene un altro apposta, da sola. Riuscì una bellezza. Dopo averne mandato una copia alla zia Carlotta e un'altra al babbo, lei ne volle una per sè. L'aveva serbata dentro il cassetto del comodino, e ogni mattina, ancora a letto, o appena levata, lo cavava fuori, restando un pezzo a guardarsi; c'era la firma di Luigi, fatta con l'inchiostro rosso, in un angolo. Un giorno che era alla finestra, sussultò, vedendolo passare e levar gli occhi. Da quella volta egli si mise a seguirla da per tutto; e quando lo scorgeva, il cuore le batteva forte forte. Pensava ancora a Niccolino Francia, ma Luigi era più grande, più nobile, e le pareva più bello.

      In inverno, i ragazzi si riunirono di nuovo, per recitare la commedia in casa di lui. C'era un bel salone mutato in teatro; egli stesso aveva dipinte le scene — sapeva far tante cose! — e intanto le mamme preparavano i costumi. A Lauretta era toccata una particina, e tutti se la mangiavano a baci, tanto faceva bene. Lei rifiutò due parti: la prima perchè troppo lunga, la seconda troppo breve. Luigi, che s'infastidiva facilmente, aveva con lei una gran pazienza, la contentava in tutto, tanto che Maria Ferla un giorno le disse:

      — Lo sappiamo, lo sappiamo che spasseggia sotto le tue finestre!...

      Lei si fece di bragia. Adesso lo guardava di nascosto, e abbassava gli occhi quando si vedeva guardata da lui. Un giorno, visitando tutta la casa del barone, insieme col nonno e tanti altri, entrarono nella sua camera.

      C'era una scansia piena di libri; un cannocchiale da teatro tutto di madreperla sul tavolo e delle spade appese in croce al muro. Luigi le porse quel cannocchiale per vedere un vapore che veniva dal Capo e se ne andava verso Messina, con una striscia di fumo in mezzo al mare. Così la seconda volta che Maria fece sentire un piccolo colpo di tosse d'intelligenza intanto che si parlava di lui, ella la prese in disparte e le disse, freddamente:

      — Sai, questi scherzi sono stupidi; adesso non siamo più delle bambine!

      Ora aveva compiti tredici anni e voleva stare fra le signorine. Per questo finì col rinunziare alla sua parte nella commedia, prendendosi invece l'incarico di aiutare le altre nella toletta.

      La rappresentazione fu un trionfo per Laura; gli spettatori avevano le mani rosse, dal tanto applaudire, e due giorni dopo, aprendo la Gazzetta di Messina, lei vi lesse il resoconto dello spettacolo. «La piccola Laura Uzeda destò il generale entusiasmo. Con la sua figura espressiva, con una vis comica degna di un'attrice consumata, fu l'enfant gatée dello scelto uditorio...»

      — Laura!... Laura!... — si mise a urlare. — Sei nella gazzetta!... Guarda, leggi!... Nonno!... dov'è il nonno?... È nella gazzetta! è nella gazzetta!...

       Sui giornali ci sarebbe stata anche lei, più tardi. Non stampavano, quando si davano delle feste dal Prefetto, o alla Borsa, o in case private, i nomi delle signore più belle? «La marchesa Grifeo, sempre elegante; la signora Tucker, uno splendore di bruna, la Marignoli che sembra la sorella della sua avvenentissima figlia...» Lei conosceva così di nome tutta la società messinese, ne parlava con quanti venivano dalla città e li lasciava tutti a bocca aperta.

      Ah! se il nonno l'avesse contentata! Adesso che le vigne al Gelso erano tutte piantate e che il Senato era a Firenze, egli vi andava spesso; ma non le conduceva neppure fino a Messina, un po' col pretesto della strada lunga, dicendo di voler aspettar la ferrovia che non costruivano mai, un po' sostenendo che era il tempo dello studio fecondo, dell'applicazione seria, e non degli svaghi. Come se, a non voler studiare, fossero indispensabili le distrazioni!

      Al contrario, se l'avessero condotta a Messina, lei avrebbe giurato di risolvere cinquanta problemi in una volta e di tradurre tutte le avventure di Telemaco! Voleva andare a Messina, era necessario che v'andasse, per non restare come una grulla quando Luigi parlava del teatro Vittorio Emanuele e del Duomo, della Villa e del Faro. E, con lunghi sospiri, guardava il mare, la rada azzurra chiusa dai monti lontani.

      D'inverno,

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