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tanto più piccolo e più brutto, Milazzo! Dal vapore, si scorgeva il mucchio delle case sotto il Castello, la passeggiata della Marina — una Marina per ridere, dopo quella di Napoli! — il porto senza bastimenti, le case basse e povere. Per le vie, niente folla, niente carrozze, niente negozii rilucenti: le piazze vuote, tranne la fontana del Carmine, colla statua di Mercurio che aveva una cintura di latta. San Giacomo faceva pietà, dopo Santa Maria del Fiore, e quando uno arrivava dai Mulini all'Ospedale, aveva bell'e traversato il paese da una parte all'altra.

      Con la mamma quasi sempre a letto, col nonno che non pareva più quello di prima, ora bisognava vedersi sempre dinanzi il muso lungo di Miss, udire i suoi borbottii di eterna malcontenta. Il solo viso allegro era quello di Stefana, che le voleva bene come un'altra mamma. «Ti tenni in braccia io per la prima, quando venisti al mondo!» le diceva, mettendosela ancora a sedere sulle ginocchia, malgrado cominciasse a pesare. Ed era lei che osava tener testa a Miss se questa la sgridava, che dimostrava al barone il torto della governante o compensava di nascosto i castighi irrevocabili. Quando le toglievano il dessert, Stefana glie ne dava, senza farne accorgere nessuno, una porzione doppia di quella che le sarebbe toccata; quando la condannavano a desinar fuori di tavola, desinavano insieme, tutt'e due sole, con più gusto, con maggiore appetito; tanto che appena Miss infliggeva un castigo, lei le rispondeva, per farla arrabbiare, con un bell'inchino:

      — Merci! Vous m'obligez, vraiment....

      Nei primi tempi, ella chiedeva spesso a Stefana notizie del babbo; la donna rispondeva che era in viaggio, o che stava poco bene, o che aveva da fare; a poco a poco ella finiva per non notare la sua assenza, per dimenticare la sua figura. La mamma non ne parlava mai, non parlava quasi di niente; si metteva accanto le bambine, carezzando lungamente i loro capelli, ascoltando il loro chiacchierio, e certe volte, sull'imbrunire, quando non avevano ancora portato il lume, delle lacrime le luccicavano sulle guancie.

      Se avessero potuto dormire nella sua stessa camera, come quand'erano più piccine! Lei aveva adesso una cameretta tutta per sè; e di giorno era una festa, chiudervisi dentro, disporre ogni cosa come le talentava: trascinare più qua il tavolino da studio, spingere più là una seggiola, rovistare nelle cassette del canterano, un mobiletto piccolino, bellino, che era il suo orgoglio. Ma quando calava la sera, e lei pensava alla notte che doveva passar lì dentro, sola, con un filo di luce del lampadino messo nel corridoio per illuminare anche la camera di Miss, aveva paura e dimenticava l'antipatia ispiratale dalla governante, invidiando Lauretta che le dormiva accosto. Era brutta la notte, il buio, il silenzio. Per questo, malgrado le fosse stato proibito dal nonno, Stefana veniva a tenerle compagnia nelle prime ore della sera, discorrendo di tante cose: com'era stato che il nonno l'aveva presa al suo servizio, quante volte aveva rifiutato di maritarsi per restar sempre in quella casa; oppure le narrava delle fiabe dove i figliuoli dei re morivano d'amore, lontani dalle Belle, e le cercavano girando il mondo, sfidando maghi, giganti, serpenti, leoni, la fame, la sete e le tempeste per liberarle, per distruggere i malefizii operati dalle streghe. Se le regine non accordavano in moglie ai principini le ragazze ch'essi volevano, i poveretti deperivano a vista d'occhio, non mangiavano più, si struggevano a lento fuoco, si riducevano in fin di vita: tutti i cortigiani piangevano, i popoli erano in lutto, i medici ammattivano, i maghi non sapevano che cosa escogitare; e a un tratto, appena le Belle si presentavano, essi guarivano come per miracolo.

      Ella sbarrava gli occhi, immobile, incantata; e quando una fiaba finiva, ne domandava un'altra, e poi un'altra ancora, finchè il sonno non s'aggravava sulle sue ciglia. Quando la credeva addormentata, Stefana se ne andava in punta di piedi, come camminando sulle uova; ma tante volte lei era desta ancora, con tutte quelle avventure nel capo; e durante la notte, svegliandosi a un tratto, sussultava, spalancava gli occhi, impaurita dalle grandi ombre proiettate dal lampadino posto per terra, dalle brutte forme che prendevano le vesti floscie sulle seggiole. Allora le fiabe narrate a veglia, invece di distrarla, accrescevano il suo spavento: le Mamme Draghe, gli eremiti colle barbe bianche fino ai piedi, gli uomini selvaggi, le teste di Turchi che appariscono quando le ragazze vanno a cogliere ramolacci, il diavolo che chiamavano Cugino, parevano s'affacciassero dall'uscio, ed ella non ardiva voltarsi contro il muro, per vedere almeno quel che avveniva nella camera. Poi, dalla parte del muro, col letto che vi era addossato, non poteva sorger nessuno, e così ella aveva le spalle sicure — giacchè la sua gran paura era che entrassero delle persone a rubarla, a portarla via, imbavagliandola, legandole mani e piedi. Ella aveva nell'orecchio il ritornello d'una fiaba, la predizione insistente e minacciosa che diceva: «Viene la morte con l'anche storte...» e quest'idea di morire l'agghiacciava nel suo lettuccio, le serrava la gola, le faceva battere i denti. Col giorno, ombre e paure svanivano; e che gioia quando, appena aperti gli occhi, la luce penetrante tra le fessure delle imposte la colpiva! Ma che seccatura, anche, quand'era Miss che veniva a destarla, una, due, tre volte, finchè non le tirava giù le coperte! Aveva una sveglia nella testa, colei? Alle sette d'inverno, alle cinque d'estate, era sempre in piedi, come una sentinella! E non c'era caso che accordasse mai cinque minuti di dilazione! Ella se ne vendicava pigliandosela con l'Irlanda, il paese dove quella vecchia era nata, o cantarellando nel camerino di toletta, come i monelli delle vie, sull'aria la donna è mobile:

      — La vecchia insipida,

      Il legno fradicio....

      — Teresa! — ammoniva Stefana, che l'aiutava a vestirsi.

       — Cosa vuoi te, adesso? Non posso neppur cantare?

      — Le signorine non cantano di queste cose!

      — O bella!... La vecchia insipida: che c'è di male?

      Non la poteva soffrire, con le sue eterne ammonizioni, coi rimproveri continui perchè il quaderno del dettato non era pulito, perchè le divisioni erano sbagliate, perchè i nomi della storia sacra non le restavano in mente. Lei si seccava a studiare quelle cose: come volevano sentirlo? A cosa doveva servirle la divisione, quando sarebbe stata grande? I conti li avrebbe dati a fare ad un altro; non era ricca e nobile abbastanza? Suo padre era il conte Uzeda, suo nonno era il barone senatore Palmi! E Stefana le diceva bene che il nonno avrebbe date tutte le sue ricchezze a lei ed a Lauretta, perchè l'altra sua figlia, la zia di Palermo, non aveva figliuoli.

      Era questa zia di Palermo, la zia Carlotta, che mandava gli abiti alle nipotine; e quando arrivavano le casse, lei non dava più retta a nessuno, provandosi e riprovandosi le vesticciole, i cappellini, le scarpette; guardandosi in tutti gli specchi, chiedendo il giudizio d'ogni persona, dalla mamma al portiere. Venivano anche gli abiti per la mamma, che neppur li guardava; peccato, dei begli abiti di velluto e di raso, pieni di trine, di nastri, di guarnizioni d'ogni specie; dei cappelli colle grandi piume attorcigliate, con dei mazzi di fiori che pareva si potessero spiccare! La mamma non usciva quasi mai di casa; e la domenica, per la messa, o quando doveva far qualche visita, o andare alla Badia, dalla zia Serafina, la monaca sorella del nonno, si metteva la prima veste che capitava e spesso lo scialle in capo.

      Pensando a un tempo lontano, quando era proprio piccolina, e non sapeva nemmeno dove fosse, se a Firenze o a Palermo o chi sa dove, lei rammentava le lunghe tolette della mamma: la vedeva dinanzi allo specchio assestarsi la veste ai fianchi, metter le buccole sfolgoranti alle orecchie voltandosi di profilo, avvolgersi il capo in una gran fascia ricamata per andare al ballo o al teatro. E quando non c'era nessuno, lei stessa fermavasi dinanzi al grande specchio dell'armadio, e lì, con una tovaglia da faccia, cercava di avvolgersi il capo al modo della sua mamma; oppure si stringeva i gomiti contro i fianchi, salutando a destra e a sinistra, come rammentava di averla vista salutare, in carrozza.

      — Thérèse, qu'est-ce que vous faites-là?

      Ella sussultava alla voce fredda di Miss, e avvampava in viso.

      — Je ne fais rien du tout!... vous le voyez bien, n'est-ce pas?

      Era proprio una noia, doversela trovare sempre fra i piedi tutto il giorno, in casa e fuori! Ma a passeggio, almeno, unendosi con le amiche e gli amici, lasciandola indietro con le altre cameriere, si godeva d'una certa libertà. Erano a San Papino le passeggiate favorite, pei campi verdi seminati di margheritine, sulla spiaggia fatta di ciottoli che cominciavano grossi come il pugno, divenivano a poco a poco piccoli e candidi, o bizzarramente venati, come confetti, e finivano in sabbia minutissima, che

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