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      — Thérèse!... — esclamava Miss.

      — Me voici...

       — Je voudrais savoir qui vous a appris ça?... Vous n'aurez pas de dessert, ce soir...

      Ella alzava le spalle, mormorando: «Je m'en moque!» E prima di desinare faceva tante moine al nonno, che il castigo finiva per esser condonato.

      — Mi secca, sai, quella vecchia!... Perchè lei è vecchia, crede che tutte debbano essere a un modo...

      — Ma no, che non è vecchia.

      — A quarant'anni suonati?... Allora, cos'è, una ragazzina?... E poi brutta, nonno!... Io non le posso soffrire le persone brutte!... Per mia fortuna, ho un babbo e una mamma che sono tanto belli!... Sai, la mamma, quando passa per le vie, le persone si voltano a guardarla.... io me ne accorgo!... E il babbo, quando monta a cavallo, com'è elegante!... Non ti pare, nonno?...

      Il nonno evitava di rispondere. Ella riprendeva:

      — Hai viste le signore che vanno a cavallo?.. A Milazzo non se ne incontra!... Come stanno bene!... Quando sarò grande, voglio andare a cavallo anch'io...

      Allora il nonno cominciava un predicozzo: bisognava avere il capo ad altro, allo studio, alle cose serie, prendere esempio da Laura; ma sul più bello ella lo interrompeva:

      — Va bene, va bene, nonno; hai ragione, studierò di più; ma Laura, vedi, è fatta a un altro modo, si secca ad andar fuori, a veder gente; tutt'al contrario di me... A me piace il passeggio, la società, il teatro... Nonno, non par vero: da tanto che siamo tornati a Firenze, non m'hanno condotta una sola volta a teatro!...

      E come finalmente il nonno, per farla contenta, le annunziò che aveva preso un palco al Niccolini, pel Crispino e la comare, ella si mise a ballare per le stanze, ridendo, battendo le mani:

       — Lauretta, a teatro!... andremo a teatro!... C'è il palco: fila seconda, numero nove... Gioia, verrai anche te!... vedrai che bellezza!

      Si stringeva al petto la sorellina, le stampava dei baci fragorosi sulle guancie, ed esclamava, tutta sola, saltarellando:

      — Fila seconda, numero nove!... Fila seconda, numero nove! — Poi correva dalla mamma, le chiedeva: — Quale veste metterò?... La bianca o la celeste?... La bianca è un po' antica, ma non mi sta meglio?... Eh, cosa ne dici?... Proviamo?

      Tutto il giorno, il pensiero di quello svago le impedì di far nulla, di star ferma due minuti di seguito; andata fuori con Miss, non aveva occhi che pei cartelloni annunzianti lo spettacolo; ma quando rincasarono e chiese alla mamma se aveva preparato il suo abito, il nonno, che era lì, rispose brusco, con una voce che non gli conosceva ancora:

      — Andate via, non si va a nessun posto.

      Ella lo guardò un poco, corrugando le sopracciglia, battendo un piede; e appena fuori di quella camera, si cavò il cappello, lo buttò per terra, si mise a strappare la veste, pallida e muta. Stefana, accorsa, tentava di calmarla; ella gridava, coi denti stretti, respingendola bruscamente:

      — Va' via, sai!... va' via...

      — Tua madre, Teresa!... non le dare un altro dispiacere...

      — Esci, ti dico!...

      E andò a chiudersi nella sua cameretta. Stefana la seguiva, picchiava all'uscio, insistendo:

      — Teresa!.. Teresina! Non esser cattiva!.. apri!.. ascolta, ho da dirti una cosa...

      Ella non rispondeva. Poi s'udì un passo e la voce del nonno, terribile, che gridava:

       — Apri!

      E come ella non rispondeva ancora, un urto violento dischiuse l'uscio. Il nonno, rosso in viso, coi pugni stretti, le s'avanzò incontro, gridando:

      — Anche tu?... Siete tutti di una razza?...

      Ella indietreggiò, dalla paura; ma ad un tratto la mamma entrò di corsa, se la prese in braccio, se la strinse al petto, furiosamente, mormorando con voce rotta:

      — Teresa!... Teresa!... figlia mia!...

      — Mamma!... oh, mamma!...

      E il suo rancore finì in pianto disperato. I singhiozzi le scuotevano il petto, le squarciavano la gola, le torcevano le labbra, e grosse, cocenti, le lacrime solcavano le sue guancie infiammate.

      — Figlia mia!... Teresina mia!... La tua mamma!... Non piangere, no; mi fai male!... Sii buona; basta, adesso!

      Ella tentava di articolare una sillaba che si perdeva nel brivido sibilante dei singhiozzi; e scuoteva il capo, sconsolatamente, come per dire che tutto, che tutto era inutile. Ora la mamma, sedutasi, l'adagiava sulle sue ginocchia, la stringeva al seno, la cullava, mormorando parole di conforto, interrotte da carezze e da baci; e a poco a poco la tempesta si sedava, le lacrime cessavano di scorrere, i singhiozzi si facevano più rari, si mutavano in grossi sospiri.

      — Non più, adesso.... Figlia mia, figlia mia cara! Aspetta, asciùgati gli occhi.... Bambina mia bizzosa! Tu non farai più questo, un'altra volta, non è vero? — ella, con un moto del capo, assentiva. — Vedi come indovino? come conosco quel che hai nel tuo cuoricino?... Adesso, dimmi che mi vuoi bene...

      — Tanto, mamma!...

      — Quanto mi vuoi bene?

       Ella cercava un poco; poi, alzati gli occhi:

      — Quanto il cielo.

      — Cara!... Cara!... Adesso andiamo dal nonno; vieni a domandargli perdono....

      Ella doveva aver fatto molto dispiacere ai parenti, perchè, anche dopo la pace, la mamma continuava a piangere; e il nonno andava di su e di giù per la casa, borbottando cose che non si capivano, poi tornava a chiudersi in camera con sua figlia; e il babbo non si vedeva, nè quel giorno nè il domani.

      — O il babbo dov'è?

      Non le rispondevano; solo Stefana le disse, una sera:

      — È partito... Aveva da fare, a Palermo....

      E un bel giorno la casa fu messa sottosopra: armadii spalancati dai quali cavavano biancheria e vestiti; bauli, valigie e sacchi da notte che si andavano colmando di roba; mobili che i facchini venivano a caricarsi sulle spalle e portavano via.

      — Che cosa fanno? — chiese a Stefana.

      — Si parte anche noi, si torna a Milazzo.

      Ella rimase, dallo stupore. E perchè a Milazzo? Cosa volevano farci? C'era già il babbo?... Le domande le morivano sulle labbra, vedendo il viso patito della mamma, che non aveva animo di levarsi dalla poltrona, e la cera del nonno così minacciosa, come s'ei fosse sul punto di picchiare qualcuno. Ella guardava le finestre del conte Rossi, che erano dirimpetto alle loro, nella corte; e si sentiva stringere il cuore, pensando che non lo avrebbe più riveduto. Prima che partissero, egli venne a salutarli: era un pomeriggio scuro, il conte parlava piano col nonno; quando s'alzò, baciò la mano alla mamma. A lei, dette un bacio sulle guancie; ne restò come stordita.

      La casa adesso era vuota: restavano i letti e le seggiole; e i bauli ingombravano la sala. Miss le conduceva fuori, e lei si guardava intorno, leggeva il nome delle vie, i cartelli delle botteghe, chiedendo:

      — Est-ce que nous ne reviendrons plus à Florence?

      — Je ne sais pas.

      Il giorno della partenza, la sua povera mamma stava così male, che dovettero reggerla nel discendere le scale e nel salire in carrozza. Lei sporgeva il capo dallo sportello per vedere la sfilata delle case, delle vie, delle piazze, per salutare la sua bella città, col cuore stretto, con una gran voglia di piangere. E dal finestrino del treno che si metteva in movimento, stendeva un braccio, apriva e chiudeva la mano, esclamando:

      — Addio, Firenze!... Arrivederci....

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