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dramma, alla commedia, ella non domandava nessuna spiegazione alla zia, nè questa diceva nulla intorno a ciò che avveniva sulla scena: ella comprendeva da sè, vedeva da per tutto riprodotta, sotto forme e circostanze diverse, l'eterna storia dell'amore, che l'esaltava, le dava delle irrequietezze nervose, uno scontento vago, l'aspirazione continua ad una esistenza più bella, più intensa, più inebbriante. Viveva in mezzo al lusso e in un bel palazzo, servita ad ogni più piccolo cenno, amata ed invidiata; eppure tutto ciò sbiadiva, diventava semplice, comune, volgare, dinanzi alle visioni che non le si levavano dagli occhi: dei castelli circondati da parchi con porticine secrete; delle caccie al suono dei corni per la foresta odorante di muschio; Parigi e i suoi spettacoli grandiosi, i balli dell'Opéra, i ricevimenti del faubourg Saint-Germain, le passeggiate al Bois de Boulogne con dei squadroni di cavalieri che si cavavano alto i cappelli al passaggio d'un'amazzone galoppante coi veli al vento. Ella aveva in testa i luoghi della grande capitale: la Chaussée d'Antin, i Campi Elisi, il nobile faubourg, il Palais Royal, la Borsa, e i dintorni: Auteuil, Fontainebleau: i romanzi che ella divorava erano pieni di scene svolgentisi lì. Talvolta ella pensava al romanzo che ella avrebbe vissuto, all'uomo che avrebbe amato; e si guardava intorno, cercandolo: ma nessuno dei giovanotti che aveva conosciuto in società le pareva degno dell'amor suo. Sapeva che gli uomini non devono esser belli nel senso femminile della parola; ma non si rassegnava a trovare possibili coloro di cui sentiva vantare la maschia bellezza; dei personaggi troppo forti, dei capelli e delle barbe troppo ispide — e la prima cosa che chiedeva all'uomo che avrebbe amato era un particolar genere di avvenenza di cui ella si era formato il tipo: corpo agile e slanciato, sanglé in un abito elegante; viso magro, mustacchi fini, soyeux; carnagione pallida, e sopra tutto aspetto signorile, mosse libere e sciolte. Fra coloro che si avvicinavano a quel tipo, ella non sceglieva ancora, perchè non trovava neppure le qualità morali che reputava indispensabili: Brancaccio era troppo leggiero, Giovanni Gravina sparlava troppo di tutti e di tutte, Orlandi era pieno di sè. In qualcuno, però, di tutti i lions ella trovava qualche qualità; di persona o di nome, per aver parlato con loro o per averli sentiti giudicare, li conosceva tutti; e quando dalla sua carrozza li vedeva scappellarsi, e la zia, di vista corta, le chiedeva: «Chi era quello lì?...» ella nominava: «Orlandi... Giovanni Gravina...» semplicemente, come persone con le quali fosse in intimità. Tutti insieme, a teatro o nelle vie, formavano per lei l'unico pubblico: essi stavano fermi a crocchio, dinanzi a un caffè, o passeggiavano lentamente, ingombrando i marciapiedi, fermandosi a esaminar le signore, salutando contemporaneamente. Ella si atteggiava più rigidamente appena scorgeva da lontano quel gruppo dei picciotti — dei giovani — fra i quali c'era il principe di Roccamozza, a sessant'anni, don Giacomo Fernandes, ripicchiato e ritinto, Alvaro Adernò con una gran barba bianca come un bel monaco cappuccino!... Ciò nondimeno, tutti quegli uomini che rappresentavano il fior fiore della nobiltà, della ricchezza, che facevano od avevano fatto parlare di loro tutta Palermo, con le loro avventure, con le loro pazzie, coi loro duelli; anche quei vecchi più interessanti della folla anonima degli studenti e dei borghesi, esercitavano un'attrattiva su di lei, assumevano ai suoi occhi una seduzione straordinaria. Vedendoli sempre insieme, pensava che fossero legati da un'amicizia eterna, come quella dei Fratelli d'arme; che fossero sempre pronti a difendersi l'uno con l'altro, come i Moschettieri; e comprendendo tutto in una sola parola: il loro valore, la loro fede, la loro forza, li aveva battezzati: «I Crociati.» Il nome aveva fatto fortuna, si sapeva che era stata lei a trovarlo. Però la reputazione del suo spirito, della sua intelligenza, le procurava la sorda gelosia di molte sue nuove conoscenze. Giovannina Leo, Rosa di Carduri, altre ancora che si credevano le più notate non soffrivano la concorrenza che faceva loro una piccola provinciale. Dinanzi ad esse, ella era stata un poco intimidita dal sentimento della propria inferiorità; invece, attribuivano a superbia quel suo ritegno. In società, ella non adoperava mai il dialetto, parendole volgare; e come teneva a far sapere che era nata in Toscana, aspirava un poco la c, pronunziava: 'osa disce? Mi faccia 'l piascere! 'He bella toletta! Per questo l'accusavano d'affettazione; poi, quando le erano dinanzi, facevano le amiche, le prodigavano delle lodi.

       La slealtà le repugnava; ma, infine, importava poco quel che dicevano di lei le sue rivali. Ella avrebbe voluto sapere piuttosto che cosa pensavano gli uomini. Vi era uno dei Crociati, Raimondo Almarosa, che la guardava spesso: non era più giovane, ma quanto più attraente di tanti altri giovani! Alto, magro, biondo d'un biondo che diventava bianco, serio, quasi sempre malinconico per la perdita della moglie e della figliuola sofferta in uno stesso giorno. Che cosa vedeva in lei? Una rassomiglianza? una delle sue morte redivive? Ella si perdeva in fantasticaggini. A teatro, quando uno sguardo si fermava su di lei, pensava a Giuseppe Balsamo, al magnetico potere che certuni sapevano spiegare. I romanzi erano sempre i consiglieri ai quali ella domandava i suoi giudizii, i suoi pensieri. Adesso ella conosceva la vita! Ed era una vita intensa che viveva, con quei libri. Slanci d'ammirazione e dolori sconfinati, raccapricci e simpatie, sorrisi e lacrime, essi le davano tutto. A volte, dopo lunghe ore di lettura, si alzava con un'oppressione fisica, una nausea, un disgusto per tutte le cose, per le volgarità dell'esistenza a cui doveva sottostare e che l'eguagliavano alla folla da cui si sentiva tanto diversa. Rifiutava i cibi, avrebbe voluto nutrirsi d'aria, finiva per procurarsi qualcuno dei soliti attacchi nervosi. Più degli eroi di quei libri, ella amava le eroine: la solidarietà del sesso l'induceva ad attaccarsi alle donne; e poi, non erano esse le arbitre dei destini umani? E le lunghe descrizioni, le pagine piene di narrazione fitta l'infastidivano: ella ne saltava molte, per arrivare ai colloquii d'amore, alle scene dolci e tremende, alle catastrofi improvvise, che la lasciavano sbalordita, con la fronte scottante. Che lacrime le costavano quei libri! Di quale amore cocente e struggente ne amava i personaggi! Ella le vedeva tutte, quelle grandi amate di cui si narravano le storie fortunose: i loro nomi le risuonavano continuamente all'orecchio: Andreina, Matilde, Emma, Cecilia. Il suo proprio nome era bello, ma ne pensava degli altri, invidiava le sue conoscenze che ne avevano di più belli, romantici: Giulia, Eleonora, Enrichetta; avrebbe voluto chiamarsi Marcella, Lidia, Remigia; o portare dei nomi stranieri: Edith, Olga, Nadina. Ed un progetto certe volte le passava per il capo: poichè la sua sorellina era morta, non avrebbero potuto chiamar lei Laura? Sarebbe stato quasi un modo di farla rivivere.

      Scriveva ogni due giorni al nonno, gli riferiva i suoi progressi, gli mandava dei lavorini fatti apposta per lui. Adesso aveva anche il maestro di canto, e superate le prime lezioni noiose cominciava ad imparare il repertorio in voga. V'erano le serenate e le barcarole piene di sospiri flebili e di lacrime cocenti al tremolare della luna sulla laguna; i notturni in cui gli amanti traditi si querelavano nell'abbandono, o prorompevano in accenti di vendetta, o si rassegnavano, continuando ad amare in silenzio, costanti e senza speranza; in cui delle povere pazze vagavano pei cimiteri, a mezzanotte, cercando un nome sopra un freddo marmo; ma v'erano sopratutto le romanze che esaltavano la bellezza sovrana della donna, la sua potenza, il suo fascino. Se le lacrime d'una fanciulla cadevano fra le rose, erano goccie di rugiada; se cadevano in mare diventavano perle; ma un angelo le raccoglieva nel cavo della mano e quel nèttare lo dissetava. Un amante voleva essere l'aura che sfiorava il biondo crine della Bella, il fiore che ella sfogliava, la stella che ella mirava; un altro s'inebbriava al ricordo delle voluttà; tutti avrebbero data la vita per un bacio, per un pensiero. E la musica aveva delle successioni di note che somigliavano a singhiozzi, a grida represse, che imprimevano come un moto di culla; degli accordi gravi, pieni d'angoscia e di mistero; degli arpeggi che sollevavano da terra, che esprimevano l'estasi. Ella sentiva il cuore salirle alla gola, le ciglia inumidirsi. Voleva provare tutto questo nella vita, aspettava una grande passione. Non era così bella da ispirarla? E si guardava allo specchio trovando che rispondeva al tipo ricorrente nei libri. Si guardava le unghie per vedere se erano tagliate a mandorla; il viso era d'un ovale perfetto, la bocca piccola, porporina, i denti di perla, tranne quel canino annerito, che un giorno o l'altro si sarebbe fatto strappare. Le guancie rosee le parevano da fanciulla borghese; ma i capelli non compensavano quel difetto? Lunghi fino ai fianchi, folti, odorosi, oro fuso. Il tipo bruno non aveva però anch'esso la sua seduzione? «Bruna come la notte, come ala di corvo...» Nella sua qualità di siciliana, ella avrebbe dovuto essere piuttosto bruna... Siciliana? Viveva in Sicilia; ma era fiorentina! E mentalmente faceva l'enumerazione di tutti i paragoni del biondo: come l'oro, come un raggio di sole, come le spiche del grano, come l'uva matura... Ella aveva la piena coscienza della propria bellezza; però, tratto tratto l'antica disperazione tornava a prenderla:

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