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Niccolò de' Lapi; ovvero, i Palleschi e i Piagnoni. Massimo d' Azeglio
Читать онлайн.Название Niccolò de' Lapi; ovvero, i Palleschi e i Piagnoni
Год выпуска 0
isbn 4064066070090
Автор произведения Massimo d' Azeglio
Жанр Языкознание
Издательство Bookwire
Il fragore di questo scoppio scosse la città e le mura, rimbombando ne’ poggi e nelle valli di Fiesole. I bastioni rimasero nascosti dal fumo per qualche minuto, ed i Fiorentini conobbero che quell’assedio tanto temuto era finalmente incominciato.
Questa dimostrazione fatta per seguire il costume militare del tempo, non produsse però effetto veruno.
Ne’ giorni seguenti le prime operazioni degli assediati si volsero contro il campanile di S. Miniato, su cui era un famoso bombardiere detto Gio. d’Antonio, e per soprannome Lupo, il quale con due sagri facea grandissimo danno al campo nemico. Il principe fe’ piantare quattro grossi cannoni sul bastione di Giramonte, i quali durarono a battere il campanile tre giorni continui.
Questi pezzi scaricarono due volte in un’ora, ed agli artiglieri del secolo XVI, pareva d’essere svelti. Le loro palle poi andavano ora a destra ora a sinistra, or alte or basse, e se talvolta davano nel campanile lo danneggiavan poco per la troppa distanza e per essere solidissimo, e non facevano altro che scalcinarlo.
Nondimeno que’ di dentro affinchè (come s’esprime il Varchi) chi era venuto con tanta baldanza per prender tutto Firenze non prendesse nemmeno una delle sue torri, lo fecero armare con grosse balle di lana dalla parte che guarda i nemici. La cosa essendo venuta in gara, e volendosi da ognuno vincer la prova, una notte i Fiorentini bastionarono il campanile con un gran monte di terra, perchè gli imperiali dovettero restar dall’impresa.
Piantarono invece una colubrina e preser di mira il palazzo de’ Signori. Ma nello sparare, il pezzo si aperse e la palla cadde nella casa del manigoldo, onde messer Silvestro Aldobrandini ne prese occasione di far due sonetti, in ischerno del papa i quali incominciavano.
«Povero campanile sventurato»
e
«Vanne Baccio Valor dal Padre Santo»
In quei primi giorni di novembre si venne alle mani in molte piccole scaramuccie, che non partorirono effetto d’importanza. I giovani della città uscivano a fronte ogni giorno, per provarsi co’ nemici contro i quali avean concepito nuovo sdegno, per una cagione che dipinge al vivo i costumi di que’ tempi.
L’esercizio della milizia si considerava allora come un mestiere del quale non avea diritto d’impacciarsi chi non fosse scritto tra i soldati, ed arruolato secondo le regole. Questi si consideravano tra loro quasi membri d’un’istessa confraternitàa, tra i quali, benchè nemici, era patto d’osservar leggi e riguardi reciproci.
La conseguenza di questa usanza fu, che i soldati imperiali la più parte invecchiati nelle guerre, e matricolati, per dir così, nell’arte che professavano, guardavano con disprezzo i Fiorentini che usurpavano (così dicevan essi) il diritto di impugnar l’armi in difesa della loro patria, nè vollero acconsentir mai di far con loro a buona guerra, come cogli altri soldati, dicendo ch’essi non eran tali, ma erano gentiluomini.
Tra le pazzie della superbia umana, questa non sarà delle meno curiose.
La gioventù se l’ebbe tanto per male che trascorse a macchiarsi di molti atti crudeli: tra gli altri Vincenzo Aldobrandini, ed il Morticino degli Antinori avendo fatto prigioni due spagnuoli, in cambio di porre loro la taglia, li scannarono.
Le cose di Firenze si trovavano in questo stato il giorno in cui Fra Giorgio uscito dal convento di S. Marco camminava verso la casa di Malatesta Baglioni.
CAPITOLO VI.
Il popolo di Firenze si trovava ottimamente ordinato per la difesa. Forti le mura, numerosa e ben instrutta la milizia, ben fornito il tesoro, abbondanti le vettovaglie, accesi gli animi d’amor di patria e d’ardire: ma egli s’allevava un serpe in seno, e questo serpe era Malatesta Baglioni.
I suoi maggiori erano stati capi de’ nobili e de’ ghibellini di Perugia, ove Gian Paolo suo padre s’era fatto signore verso la fine del secolo XV, e benchè due volte ne fosse stato cacciato, l’una da Cesare Borgia, l’altra da Giulio II, pure gli era di nuovo riuscito di stabilirvisi. Finalmente Leon X, volendo riunire Perugia agli stati della Chiesa, adescatolo con larghe promesse e con un salvocondotto, l’indusse a portarsi a Roma, ove in iscambio dell’accoglienza che gli si prometteva, fu preso, posto al tormento e decapitato.
L’odio che gli si portava dall’universale pe’ suoi delitti, fece che la voce pubblica assolvesse Leone della tradita fede.
I principj di Malatesta furono simili a quelli del padre.
Condottiere a’ servigi de’ Veneziani da prima, poi signore di Perugia, infine, come vedemmo, capitano de’ Fiorentini. Uomo di mente fredda, sagace, astutissimo; d’instancabile pertinacia ne’ suoi propositi, superbo, avaro, tenace nelle vendette, e sopra ogni altra cosa maestro di frodi e dell’arte di nasconderle e colorirle, persino allorquando avessero partorito l’effetto; prode ed ardito della persona, ed assai esperto capitano. Tipo insomma di que’ signorotti tirannelli che per secoli sorsero, caddero e ricomparvero in pressochè tutte le città italiane: ora principi ora condottieri a servigi di altri principi, o di repubbliche più potenti di loro, spesso capi di parte, di fuorusciti, o di masnadieri. Esperti d’ogni fortuna, ed in tutte animosi, insaziabili, irrequieti. Uomini che allevati tra domestiche infamie e risse cittadinesche, vissuti in vicenda continua di violenze e d’astuzie, finivano le più volte oppressi o traditi da nemici potenti e palesi, ovvero sotto il coltello de’ sicarj, o de’ loro più stretti congiunti. Onde in quell’età più che in ogni altra apparve vera la sentenza di Giovenale:
Ad generum Cereris sine cæde et vulnere pauci Descendunt reges et sicca morte tyranni.
Non parrebbe che in cotesti ribaldi dovesse esser idea veruna di religione o di fede. Eppure, a loro modo, essi avean l’una e l’altra; tanto è vero che Diogene nel definir l’uomo un bipede implume, avrebbe dovuto aggiungere «ed inconseguente.» Essi edificavan chiese, nutrivan frati, arricchivan santuarj; credevan in Dio, nel vangelo, nel papa, ed, avanti sempre coll’istessa logica, nelle streghe, nell’alchimia e nell’astrologia.
Malatesta anch’esso prestava cieca fede ad un astrologo ebreo detto maestro Barlaam, nativo d’Ungheria, il quale all’arte divinatoria univa molto sapere nella medicina, e molta pratica nel modo d’esercitarla.
Viveva costui a discrezione in casa il Baglioni, lo seguiva in tutte le sue imprese, e s’andava facendo ricco de’ suoi danari.
Non si può dir però che fossero tutti egualmente rubati, e ne guadagnava meritamente una parte colle cure continue che richiedevano le gravi infermità del suo padrone.
Quella malattia tremenda, colla quale l’America s’è così pienamente vendicata dell’Europa, e che nel secolo XVI raro o non mai si guariva, andava consumando lentamente Malatesta. Egli aveva sortita dalla natura una complessione robusta colla quale potè sostener le fatiche e i disagi della milizia, finchè le conseguenze della dissolutezza non ebber distrutta in lui la salute e le forze. Dapprima egli era largo di spalle e di petto, di volto vegeto e brunetto, con barba e capelli neri, corti e ricciuti; insomma era il vigore in persona.
In quale stato l’avessero ora ridotto i suoi malanni, lo vedremo tra poco.
Il palazzo Serristori, ov’egli alloggiava, era, com’è al presente (benchè al tutto mutato) in fondo alla piazza presso il Ponte alle Grazie. La parte di dietro guardava sul canale delle mulina e sull’Arno.
L’istessa mattina dalla quale ha preso le mosse la nostra storia, un’ora innanzi