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volete, ma qui, carte in tavola.—

      Messer Benedetto sentendosi trafiggere disse in cuore «Mi sta bene» ma tacque.

      —Insomma, proseguì Malatesta, Niccolò non seppe mai nulla di questo matrimonio. Dopo non so che tempo la Lisa partorì un figliuolo e coll’ajuto d’una sua sorella, che venne posta a parte del segreto, quando all’altra cominciò a crescer il corpo, la cosa succedette tanto copertamente che nessuno della casa se n’avvide.—Troilo in tanto per la guerra che s’aspettava, se n’era ito onde unirsi a’ Palleschi: e non ha pensato più nè alla Lisa nè a Niccolò, nè a cotali sollazzi. Il fanciullo, dic’egli, debb’esser in qualche casa di Firenze, ma non sa dove. Ora e’ bisogna trovarlo e far che Niccolò sappia tutto. Piagnone, o non Piagnone, e’ converrà bene che sia contento d’aver Troilo per genero, anzichè veder vituperata la figliuola.—

      —E Troilo è egli disposto di mettersi in questo gineprajo?—

      —E’ non voleva, e mi faceva il fanciullo, ma io l’ho svilito molto, e gli ho fatto intendere che queste coscenze e queste fedi son cose da morir di fame.... Eh! vi so dir io che si farà un valentuomo. I gattini al dì d’oggi, aprono gli occhi per tempo.—Ora dunque sono da fare due cose.... e voi come fiorentino, pratico della terra, potrete di leggieri.... onde tocca a voi.... Ecco: La prima sapere chi tiene il fanciullo ed in qual casa egli stia. La seconda far che Niccolò sappia ogni cosa.... oppure.... che so io?.... si potrebb’anco far che gli portassero il fanciullo in casa, all’impensata,... insomma pensatevi voi. O egli vorrà coprir la cosa ed avrà di grazia accettar Troilo; o nasceranno scandali, farà un diavoleto del trentamila, dirà una villania da cani alla figlia, le darà, la caccerà di casa, ed allora la Lisa dovrà volgersi a Troilo, e quando al vecchio si sia freddato il primo furore, l’avrà a mangiare a modo nostro s’egli crepasse.—

      —Bene, bene, tutte cose non molto difficili; lasciatene la cura a me.—

      —Ora andatevene per amor di Dio, che a momenti dovrebbero sonar dodici ore (le 7). Animo, e prudenza. Dio v’ajuti.—

      I due ribaldi si separarono.

      Il dottore per certi bugigattoli riuscì in istrada. Malatesta rimase co’ suoi dolori, e forse col piacere d’averne preparati di peggio a tanti sventurati.

       Indice

      La sala ove Malatesta avea costume di tener consiglio, ed accogliere chi veniva a visitarlo, che noi diremmo sala di ricevimento, era un gran stanzone verso strada, ornato di pitture a fresco del Francia e di Pietro Perugino: riceveva la luce da sei finestre, e sotto il parapetto d’ognuna sorgean di qua e di là due sedili di mattoni coperti d’una lastra di marmo; nel mezzo della parete in fondo era una specie di zoccolo, o basamento di legno nel quale stava fitta la bandiera di Malatesta, di qua e di là v’eran disposte a guisa di trofei molte sue armature, mirabili soprattutto per la tempra, e per la leggerezza, qualità necessaria onde le potesse indossare un uomo cotanto indebolito dalle infermità.

      Era l’uso che ogni mattina a levata di sole i capitani di guardia alle porte della città mandassero a Malatesta uno de’ loro ufficiali, a riferirgli se vi fosse stato nulla di nuovo durante la notte, e ad intender gli ordini per la giornata. A quest’ora si trovavan costoro già tutti radunati nell’anticamera, e come appunto in quel frattempo eran cominciati gli spari dell’artiglieria del campo, s’eran affacciati alle finestre che guardano verso Ponte alle Grazie ragionando tra loro di questi rumori.

      Non dubitando che, se vi fosse nulla di grave dovesse tosto giungere un qualche messo a darne l’avviso, badavano attenti ora dalla parte di S. Niccolò, ora dal Ponte se ne comparisse alcuno. Ma in tutta la piazza per quanto potea correr l’occhio, non v’era anima viva: pioveva, e fra il tempo, la solitudine, il gusto di far anticamera, e quel brontolamento cupo e lontano delle artiglierie era di quelle mezz’ore che mettono l’uggia addosso ad ognuno.

      A un tratto ecco sboccare dal Ponte alle Grazie un frate di S. Marco che a vedere come menava la gamba per la melletta, si dovea dire che la tonaca poco gli desse impaccio.

      I soldati di tutti i tempi e di tutte le nazioni (almeno così crediamo) hanno avuto sempre una decisa vocazione per dar la baja e farsi beffe del prossimo. Tra loro un frizzo costa alle volte una buona stoccata, perciò prima di parlare ci pensano; ma se incappano in uno che non sappia e non voglia rispondere agli scherzi cogli stocchi, allora lascia far a loro.... Tanto poco è vero che l’uomo sia per natura animale generoso.

      Visto adunque appena quel benedetto Frate, tutti a ridere e schiamazzare.

      —Ecco la nuova!—Ecco il corriere. Ecco il corriere della scomunica!—E il Frate avanti. Quando poi fu sotto alle finestre e che invece d’andar al suo viaggio infilò il portone, crebber le risa e l’allegrezza, e di più pensarono, per far ora intanto che Malatesta ci fa aspettare, e per passar la seccaggine, ci sollazzeremo a dar la baja a questo frate. Ma il frate poteva star alla barba a tutti loro poichè egli era il nostro amico Fanfulla.

      Entrato in cortile, e veduto ragazzi di stalla che strigliavan cavalli sotto il portico, soldati di qua, archibusi e picche di là, e respirando quell’atmosfera soldatesca s’era sentito come ad allargare il cuore. Qualche risata alle sue spalle s’era bensì potuta notare, e qualche piacevolezza sulla sua tonaca gli era pur giunta all’orecchio: ma in quel momento, contento com’era e pieno del suo disegno, non si sarebbe volto se gli fosse scoppiata una mina alle spalle. S’aggiunga poi che, strada facendo, non aveva perduto il tempo, ed era venuto combinando un pezzo d’eloquenza, col quale potesse farsi onore, e degnamente esporre la sua domanda al capitano de’ Fiorentini; e questo lavorìo gli teneva troppo occupata la mente perchè potesse curarsi d’altro.

      Giacchè siamo su questo discorso, faremo sapere al lettore che Fanfulla era sottoposto anch’esso a quella fatalità che sembra portar tutti gli uomini da qualcosa a pretender poco nell’arte che sanno e molto in quella che non sanno. Ed egli appunto che era buon soldato, pretendeva invece d’esser bel parlatore, soltanto perchè durante la vita fratesca a furia d’udir sermoni, di leggere libri d’ogni materia, conversar coi frati, e con quanti capitavano in convento, s’era mobiliata la memoria di qualche centinajo di frasi, di sentenze, di periodi bell’e fatti; ma mobiliata, s’intende, come può esserlo una bottega d’uno stipettajo o d’un rigattiere.

      Salì le scale, entrò nell’anticamera salutando la brigata ed accostandosi all’usciere gli disse:

      —In grazia, quando si possa, vorrei dire due parole a S. Mag.—

      —Il vostro nome?—

      —Fra Giorgio da Lodi di S. Marco.—

      —Aspettate. Ma vi so dir che ci sarà tempo... vedete quanta gente è in anticamera.—

      Fanfulla senza risponder altro si mise a sedere accanto ad una tavola, e v’appoggiò un braccio, distese le gambe, e dimenando piano piano la punta de’ piedi col mento all’aria, senza guardar in faccia a nessuno, rimase tutto assorto nel pensiero della sua arringa. Non era malcontento tutt’insieme del modo col quale l’aveva combinata, ma avrebbe ancora voluto farvi entrare qualche parte di filosofia, come scrive di aver fatto il Cellini, quando parlava con Paolo III, del modo di tingere un diamante: ognuno s’avvede quanto in ambedue i casi la filosofia venisse a proposito; e tanto più quella di Fanfulla che consisteva in qualche idea di fisica, vera o falsa non importa, ed in qualche sogno d’astrologia.

      Mentre egli durava questa fatica, gli ufficiali che eran prima affacciati, avevan volte le reni alle finestre, squadrato ben bene il Frate, e trovandolo d’altra faccia e d’altri modi che non s’aspettavano, si guardavano in viso l’un l’altro.

      —Che te ne pare? diceva uno, di quella faccia di servo di Dio? non istarebbe male sul collo d’un birro.—

      —Diavolo! diceva un’altro, senz’un’occhio!... un taglio in faccia! bisogna dire che

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