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fianco tondo ogni giorno con paglia, orzo, e biada ci voleva altro che star ai pasti del ciuco e di due vacche smunte che erano i suoi compagni di stalla e di lavoro.

      Malgrado le cure di Fra Giorgio, dopo il primo mese, l’ossa dell’anche cominciarono a sorgere, indi a numerarsi le costole: il collo, la schiena e la groppa s’avvezzarono a star abitualmente sull’istessa linea, l’orecchie anch’esse non potendo più opporsi alla legge di gravità si chinarono sulle tempie, l’occhio divenne malinconico, ed il povero Grifone (così gli avea posto nome il Fanfulla d’altre volte) acquistò la seria ed afflitta immobilità del ciuco suo vicino.

      Fra Giorgio, non reggendogli il cuore di veder questa brutta metamorfosi fino al fine, l’abbandonò per disperato e da più d’un anno non avea messo piede in istalla. V’entrò adesso preparato al peggio.

      Al di sopra delle vacche e dell’asino vide sorgere il dorso del suo sventurato Grifone: ma pareva un di quegli animalacci rari che si conservano ne’ musei, o per dir meglio la loro pelle retta su quattro stili, e pochi regoli in traverso, ed imbottita qua e là di paglia e di borra.

      Fra Giorgio si messe le mani ai capegli e fu per voltarsi a fuggire com’avesse veduta la versiera. Pure si rattenne. Fin che v’era filo di speranza non volle rinunciarvi. Considerò le spalle e le zampe, e non gli parve di trovarvi gran male: fece di metter insieme uno stajo tra orzo e biada, e dopo averlo abbeverato, glielo pose innanzi.

      «A corpo pieno ci riparleremo» disse, e per allora lo lasciò stare.

      Pensò di dare intanto un’occhiata alle sue armi dicendo: «Anche qui vi saran de’ guai.» S’avviò ad una camera terrena specie di guardaroba, ove le avea lasciate per vestir l’abito. Era uno stanzone posto in un angolo del chiostro, e vi giaceva buttato alla rinfusa un monte di mobile vecchio, di suppellettili di sagrestia; v’erano scale, legnami a stagionare, orci, stuoje vecchie, mele a maturar sulla paglia, agli e cipolle appiccate alle chiavi della volta, ed in mezzo a questa confusione trovò, parte pendenti dal muro, parte caduti in terra, tutti i pezzi che componevano il suo arnese, colla sella, la briglia e gli altri guernimenti del cavallo. I ferri erano pieni di ruggine; le cuoja screpolate coperte d’un velluto di muffa verde e turchina.

      De’ ragnateli poi e della polvere non se ne parla.

      Raccozzò ogni cosa alla meglio e portò il tutto nella sua cella: aiutandosi con olio e con un pezzo di legno dolce si diede a giocar di schiena finchè dopo un’ora buona di lavoro ebbe scoperto che la ruggine non avea tanto danneggiate quell’armi da renderle inservibili.

      Tornato alla stalla ove il cavallo s’era un poco ristorato dallo stento, lo sciolse dalla mangiatoja, e lo trasse in una piccol’aja che era tra la casa e l’orto. Dopo avergli infilata la briglia, con un salto si trovò su, e così a bardosso cominciò a provare a farlo muovere in volta. La povera bestia trovandosi satolla, e non le era accaduto da un pezzo, avea ripreso spirito, e si maneggiava ancora meglio che il cavaliere non avrebbe pensato.

      Questi saltò a terra molto contento e confortandosi che un migliore scotto per qualche giorno l’avrebbe finita di risuscitare, ritornò nella sua cella.

      Per non perder tempo (chè ad ogni minuto si sentiva crescer la smania) dispose d’uscir tosto per cercare ove potesse venir adoperato. Si rassettò i capelli e la barba, scosse la tonaca, e tiratosi in sugli occhi il cappuccio, si trovò presto sulla piazza S. Marco avviato verso il Renajo de’ Serristori (passato il ponte Rubaconte, ora detto alle Grazie) ove abitava il signor Malatesta Baglioni capitan generale de’ Fiorentini.

      Il tempo ch’egli impiegherà per istrada non crediamo inutile (prima d’entrare in altro) impiegarlo a por sottocchio al lettore a qual termine si trovasse allora Firenze, ed a ricordargli le congiunture politiche, che ve l’avevan condotta.

      Dai primi anni del secolo XVI l’Europa si trovava sconvolta.

      Tre uomini ai quali era dato trarsi dietro la moltitudine coll’autorità del grado, colla potenza dell’armi, o con quella dell’ingegno, Carlo V, Francesco I e Martino Lutero, parve in quel tempo facessero a chi di loro poteva metter più sottosopra l’umanità.

      I due primi divenuti nemici, dacchè cessarono di essere rivali nelle loro pretensioni alla corona Imperiale ottenuta da Carlo, mossero l’un contro l’altro, e durarono finchè vissero in un’alternativa continua di guerre lunghe, atroci, macchiate di frode e di crudeltà, e di brevi paci accordate vilmente, ed oltraggiosamente turbate.

      Il terzo, povero frate Agostiniano armato di dottrina, d’ingegno, d’audacia ad ogni prova, potente de’ mali umori che gli abusi della giurisdizione ecclesiastica avean generati tra popoli della Germania destò quell’incendio, che dovea consumare il cattolicismo nella metà dell’Europa.

      L’ambizione, l’amore di gloria vana e avventurosa, ed il fanatismo di religione, che erano le passioni dominanti di questi tre uomini, divennero le passioni di tutti nel secolo XVI, al principiar del quale l’umana società entrò per una strada nuova, che dovea battere senza guardarsi indietro sino a tutto il XVIII.

      I re che fin allora avean condotte a stento guerre brevi e locali coll’ajuto di vassalli mal domi obbligati a seguirli soltanto per un tempo limitato, trovarono danari aumentando le gravezze, per pagar soldati i quali non lasciavan mai le bandiere e stavano a posta del principe dove e quanto pareva a lui. Furono allora posti i fondamenti di quel sistema d’eserciti numerosi e stanziali, e di tasse sempre maggiori; sistema che uscito d’ogni termine ragionevole, partorì all’età nostra gravissime difficoltà.

      La politica per tener dietro a questo nuovo stato, dove pel passato era quasi interamente circoscritta entro i limiti d’ogni nazione, si dilatò, e concepì il disegno di stabilire l’equilibrio Europeo, pel quale i governi venuti a potenza maggiore e più compatta si sostennero a vicenda sodando in certo modo gli uni per gli altri.

      La religione fondata sin allora sull’autorità, fu scossa dalla dottrina dell’esame individuale, e la fede rovinando si sminuzzò, se ci si concede l’espressione, in altrettante quanti erano i seguaci della riforma. Le forze di questa intromettendosi tra i monarchi rivali ora ne turbarono ora ne ajutarono i disegni, rendendo più complicate le loro gare cui dovettero prender parte più o meno tutti gli stati minori.

      Narrare le tante vicende che ne seguirono, non fa per la nostra storia. Basterà toccare rapidamente quelle che ebbero più diretta influenza sui destini de’ Fiorentini.

      Dopo il trattato di Madrid col quale Francesco I ricuperò la libertà, si conobbe tosto che le sventure ed i poco generosi trattamenti di Carlo V aveano spenta nel monarca francese quella lealtà cavalleresca che lo avea tante volte indotto a spinger la fiducia sino alla credulità, e la generosità sino all’imprudenza.

      Non solo trovò il modo di coonestare il rifiuto di cedere la Borgogna secondo l’accordo, ma si fece capo d’una lega contro Carlo V, detta la lega Santa, cui s’accostarono i principali stati d’Italia che la smisurata potenza dell’Imperatore metteva in sospetto.

      S’unirono il Duca Sforza, Clemente VII, ed i Fiorentini, i quali dovettero servire ai disegni d’un Papa di casa Medici padrona allora della città. Ma da una parte il Duca d’Urbino capitano dell’esercito della lega, ricordando le ingiurie sofferte da quella famiglia[8] non v’andò mai di buone gambe, dall’altra il re Francesco, mirando solo ad ottener la libertà de’ suoi figli rimasti in Ispagna per istatichi, si valeva degli sforzi degl’Italiani per avvalorare le sue continue istanze presso la corte di Madrid, rovesciando su di essi tutto il peso della guerra.

      I collegati s’avvidero presto della sua dubbia fede, e raffreddandosi pensarono ciascuno ai proprj interessi.

      Il Papa cui i Colonnesi intesi con D. Ugo di Moncada vicerè di Napoli, avevano assaltato e costretto a rifuggirsi in Castel S. Angelo, conchiuse un accordo pel quale dovette essere il primo a staccarsi dalla lega, e richiamare le sue genti di Lombardia. Queste cose accadevano nel 1526.

      Intanto Carlo V ingrossava in Italia. Le soldatesche calatevi con Giorgio di Fransperg s’erano unite a Borbone, e si movevano alla volta di Roma, il

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