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avidamente ricercato da tutti accresceva diletto quanto più si leggeva, ed erasi ben nove volte ristampato dal 1524 al 1527 tra Venezia e Milano. Alcune di queste edizioni si dicevano fatte con licenza dell'autore, altre lo tacevano: niuna però portava correzioni ed aggiunte che l'Ariosto riserbavasi introdurre in una terza impressione da eseguirsi in Ferrara colla propria assistenza: «non passando mai giorno, come scrive il Giraldi, ch'egli non vi fosse intorno e con la penna e col pensiero». A questo scopo bramando vivere più tranquillo e solitario, si divise nel 1527 dai fratelli, comprò nella contrada di Mirasole una casetta con diverse pezze di terra all'intorno e si pose a fabbricarvi e a formarvi un piccolo giardino, spendendo tutto quello che poteva ritrarre delle sue rendite. «E perchè male corrispondevano (come nelle sue Memorie lasciò scritto il figlio Virginio) le cose fatte all'animo suo, soleva dolersi spesso che non fosse così facile il mutar le fabbriche come i suoi versi; e agli uomini che gli dicevano che si maravigliavano ch'esso non facesse una bella casa, essendo persona che così ben dipingeva i giardini, rispondeva che faceva quelli senza denari». Sull'entrata della casa leggevasi il seguente distico:

       Parva, sed apta mihi, sed nulli obnoxia, sed non

       Sordida, parta meo sed tamen aere Domus;

      ed ivi ritiratosi attese a dar l'ultima mano al suo Furioso, occupandosi ancora di rivedere le sue commedie in versi, le Satire e le poesie liriche. Erano suo passatempo le cure del giardino, ove (séguita a dire Virginio) «teneva il modo medesimo che nel far de' versi, perchè mai non lasciava cosa alcuna che piantasse più di tre mesi in un loco: e se piantava anime di pesche o semente di alcuna sorte, andava tante volte a vedere se germogliavano che finalmente rompeva il germoglio».

      Pel duca Alfonso rinnovavansi intanto le triste condizioni dei tempi di Leone X, poichè il nuovo papa Clemente VII, «nome tanto contrario agli effetti che poi si videro di lui»[115], non tardò a mostrarsegli ostile. Avendo il duca spedito oratori a Roma affine di essere rintegrato di tutti i suoi Stati, ma con ottenere soltanto che dal 15 marzo 1524 ad un anno avvenire rimanesse ogni cosa in sospeso; papa Clemente cominciò nell'agosto di detto anno a chiedere la restituzione di Reggio e Rubiera, unitamente all'altre terre ricuperate ne' due mesi della sede vacante. Si fece conoscere il torto del papa, ed egli irritatosi «mandò un nunzio con una breve capitolazione circa la restituzione trattata, che la portò del mese di ottobre, avendo posto in punto genti da piedi e da cavallo delle sue e de' Fiorentini per usarle all'improvviso contro esso duca quando lui non avesse voluto sottoscrivere la detta capitolazione in termine di due ore: e il duca Alfonso, temendo peggio e trovandosi disarmato sotto la fede che si vedeva mancargli, sottoscrisse li capitoli nelli quali si conteneva, che avesse a dare al detto papa Clemente Reggio e Rubiera con lor territorii ed anco il Finale e san Felice fra venti giorni, e che esso papa avesse a dare la investitura a lui di Ferrara... con pena di cento mila ducati a chi non osservasse. Ma poi vedendosi esso duca tanto iniquamente essere stato necessitato a sottoscrivere li detti capitoli, deliberato di non li eseguire, lasciò passare il termine prescritto, confidandosi nella venuta del re di Francia; che venne tanto presto, che appena gli Spagnuoli ebbero tempo fuggendo di ridursi a Pavia, alla quale esso re pose il campo, avendo già preso Milano. Ed è da sapere che pendente il termine di detti venti dì, il conte Guido Rangone, che stava col papa Clemente, con inganno rubò Montecchio al duca Alfonso; il che, per quanto s'intese, fece di scienza ed ordine di detto papa». Ciò rileviamo dal segretario del duca Bon. Pistofilo[116], il quale sebben cerchi d'ogni lato trovar scuse al suo principale, mostrerà sempre, anche ammettendo il fatto com'egli lo narra, che due uomini di mala fede si stavano a fronte. — Venuto in Italia il re di Francia, il papa cercò tosto di allearsi al medesimo, stimandolo più potente degli Imperiali: ma questi nella memorabile giornata del 24 febbraio 1525 sconfissero sotto Pavia l'esercito francese, e lo stesso re Francesco I cadde prigioniero nelle loro mani. Clemente VII fece poi nuova pratica con Carlo V per ottenere l'adempimento della capitolazione firmata dal duca, il quale riescì ancora ad allontanare la tempesta, conciliandosi gli Imperiali mediante il prestito fatto nel 25 marzo al vicerè di Napoli generale dell'imperatore di sessantacinque mila scudi. — Volle pur mettersi in amichevole relazione coi Veneziani, restituendogli le galere guadagnate in Po nel 1509; e il 20 settembre s'avviò «per terra alla corte dell'imperatore Carlo V in Spagna per far riverenza alla Cesarea Maestà, e per vedere se con tal mezzo potea rassettare le cose sue con Clemente VII.... Ma perchè il re di Francia era allora prigione in Spagna.... riputando i Francesi che lo andare del duca fosse di troppa importanza al servigio di esso imperatore e a detrimento della corona di Francia della quale detto duca era sempre stato ed era affezionatissimo e devoto, non gli volsero concedere il passo per la Francia: di maniera che, poi ch'ei fu stato un mese a S. Giovanni di Moriana in mezzo la Savoia, che sin là era pervenuto, se ne tornò a Ferrara»[117]. — Vennero poi in campo, a quanto ci narrano gli storici di casa d'Este, le solite trame contro la vita del duca «a satisfazione di papa Clemente e con consiglio comunicato col conte Guido Rangone»[118], indi le rivelazioni dei traditori pentiti che le sventarono, e le morti di alcuni complici principali, fra quali Girolamo Pio di Sassuolo decapitato il 25 ottobre 1528, i cui beni confiscati formarono la dote d'Isabella figlia naturale del cardinale Ippolito d'Este.

      Col trattato di Madrid 14 gennaio 1526, Carlo V, il più grande dominatore del mondo a' suoi giorni, fece pace colla Francia, e il 18 marzo il re Francesco I venne posto in libertà. Il papa sperando poter abbattere la soverchia potenza dell'imperatore in Italia, stabilì una così detta lega santa colla Repubblica di Venezia, lo Sforza, e il re di Francia il quale ruppe fede al trattato di Madrid. Il duca Alfonso era stato escluso dal papa: ma gli altri alleati lo invitarono a farvi parte, ed egli accettò. Anche Giovanni de' Medici, aderendo ai consigli di Clemente VII, avea fin dal 1525 abbandonato gl'Imperiali per collocarsi colle sue bande nere al servizio di Francia. Da tutti gli Stati italiani raccoglievansi forze per cominciare contro Carlo V una grossa guerra che tornò ben presto fatale al papa, poichè mentre la maggior parte delle milizie della lega trovavasi all'assedio di Milano, il 21 settembre 1526 «don Ugo di Moncada insieme col cardinale Colonna per nome Pompeo, accompagnati da altri signori e seguaci Colonnesi, con buon numero di gente da piede e da cavallo, d'improvviso entrarono in Roma e saccheggiarono il palazzo del papa e molte altre case; e appena il papa ebbe tempo di salvarsi in Castel Sant'Angelo»[119], poi scendere a patti per liberarsene. Il duca Alfonso vagheggiava in questo mentre di abbandonare la lega per unirsi a Carlo V che lo invitava con promessa di molti vantaggi e che inviavagli il 5 ottobre diplomi per dichiararlo suo capitano generale in Italia: ma sembra ch'egli non si risolvesse così di sùbito a ratificare la cosa: un po' vergognando di mettersi contro la Francia, sua antica e fedele alleata, un po' mirando a guadagnar tempo in attesa di nuovi fatti.

      Sui primi di novembre calava in Italia Giorgio di Frundsberg con quindici mila tedeschi per soccorrere l'esercito imperiale a Milano. Portava egli seco e mostrava a tutti legati sull'arcione del cavallo un laccio d'oro e molti altri di seta coi quali iniquamente vantavasi che avrebbe appesi di sua mano il papa e i cardinali; «e volendo passare il Po a Mantova, il duca d'Urbino capitano generale de' Veneziani ch'era con l'esercito in Lombardia contro i Cesarei, venne con tutta la gente che avea, ed insieme con esso il signor Giovannino de' Medici, per impedire che non passassero: che certo gli aveva impediti e ridotti anco a qualche gran necessitade, perchè non avevano nè cavalli, nè artiglieria. Ma il duca Alfonso, il quale se bene non avea ancor fatto l'appuntamento, nè firmato intieramente con l'imperatore, avea però l'animo inclinato alla parte imperiale, mandò suso in nave sino a Governolo dodici falconi e mezze colubrine fornite di munizioni agli detti Germani.... che giunto un sì opportunissimo soccorso, presero maggior coraggio, ed animosamente mostrarono la faccia ad essi nemici, li quali vista e sentita la detta artiglieria, si ritirarono.... con perdita di alcuni di loro troppo animosi, e fra gli altri del predetto Giovannino, al quale una ballotta da falcone portò via la gamba destra, e fu portato a morire in Mantova; e così poi essi Germani, senza essere più seguitati, vennero a passare il Po a lor piacere ad Ostia, e andarono verso Piacenza per unirsi col duca di Borbone[120]» comandante supremo degli Imperiali.

      Cotal fine ebbe il valoroso capitano delle bande nere Giovanni de' Medici. Aveva egli chiesto in quest'anno al duca di Ferrara, all'amico della Francia per cui combatteva, alcune artiglierie che gli abbisognavano; e il duca con sua lettera del 2 marzo[121] gliele aveva negate, mandandole invece in aiuto ai Tedeschi,

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