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di detto anno 1531 essendosi Alfonso portato ai bagni d'Abano, vi andò seco l'Ariosto ove ammalò di febbre. Voleva subito restituirsi a Ferrara, ma il cavalier Obici, che pur trovavasi ai bagni, lo persuase a seguirlo nella vicina città di Padova e fermarsi in sua casa finchè fosse ristabilito. Quivi ebbe un'altra febbre che fu dichiarata terzana; e mentre attendeva a riaversi sopraggiunse il duca che il volle a Venezia con lui, come lo stesso Ariosto c'informa in una lettera scritta a nome di Alessandra (pag. 325).

      Ritornato nel settembre a Ferrara, il duca ebbe avviso che il papa radunava degli uomini d'arme che si dicevano destinati a ricuperar Carpi ad Alberto Pio. Disponendosi perciò a farne buona difesa, chiese all'uopo soccorso a don Alfonso Davalo marchese del Vasto comandante le truppe imperiali in Mantova, e spedì tosto l'Ariosto a concertarsi col medesimo. Il nostro poeta lo trovò in Correggio in casa della celebre Veronica Gambara, ov'era passato a porre il suo quartier generale; ed è facile il comprendere quanto il poeta vi fosse accolto con ogni festa e favore, avendolo il marchese, grande estimatore degli uomini d'ingegno, regalato al partir suo di un bellissimo lapislazzoli, di una catena d'oro e di una pensione di cento ducati l'anno per sè e suoi eredi, stipulata per atto notarile fatto in Correggio il 18 ottobre 1531, e come apparisce dalla lettera dell'Alessandra Benucci vedova Strozzi che pubblichiamo (pag. 327).

      Questi apparecchi fecero dimettere al papa il pensiero d'invadere gli stati d'Alfonso. Sembra per altro che si tramasse una nuova congiura per ucciderlo con tutta l'Estense famiglia: ma venendo, come sempre, scoperto il funesto disegno, Bartolomeo Costabili, vecchio di ottantaquattro anni, fu sui primi del 1532 decapitato, e la testa ebbe infissa in un'asta su la parte più alta del castello.

      In quest'anno l'Ariosto si accinse alla terza sua ristampa dell'Orlando furioso corretto ed accresciuto, non isdegnando di averlo prima sottoposto al Bembo e ad altri uomini dotti «per imparare quello che per lui non era atto a conoscere» (pag. 282); così umilmente scrivea di sè stesso, così era difficile a contentarsi del proprio giudizio. L'edizione fu cominciata nel maggio e terminata in Ferrara, per maestro Francesco Rosso da Valenza, addì primo d'ottobre MDXXXII. Rivide ei medesimo con somma pazienza e fatica le bozze di stampa; e trovandosi esemplari che hanno fra loro alcune varietà, è manifesto che a quando a quando faceva interrompere la tiratura dei fogli per introdurvi nuovi miglioramenti. Al canto nono cominciano le più notabili mutazioni e le aggiunte qui e là nel poema, che con nuovo ordine portò a canti 46. Confrontando questa colle antecedenti impressioni «apparirà incomprensibile (dice il Foscolo) come uno scrittore che incominciò dal peccare sì grossamente contra le regole del buon gusto e della dizione poetica, potesse in seguito espungere tali colpe, e mettere in loro luogo così gran numero di trascendenti bellezze»; ma lo studio che l'Ariosto confessa di aver fatto delle grazie native dell'idioma toscano[129], e il continuo mutare e rimutare de' suoi versi in cui seppe per più anni persistere, lo condussero a vincere ogni difficoltà, a raggiungere una forma vigorosa e corretta, armoniosa ed espressiva, onde viene a formarsi quel mirabile accordo di pregio poetico che tanto risponde alla vaghezza dei fatti che trattano

      Di donne e cavalier, d'armi e d'amori.

      «L'Ariosto avea pensato sull'arte e sul gusto de' suoi coetanei, e una lunga esperienza gli aveva giovato. Ei tenevasi certo del buon effetto del suo poetare.... di quel suo metodo di complicare l'azione principale frapponendovi gran varietà di favole secondarie, le quali, sebbene possano sviare chi legge, pure hanno virtù di colpirgli la fantasia, e di strascinarlo alla catastrofe del poema, dove si vede lo scioglimento delle varie avventure. — Egli inebria la fantasia, vuole che quanto a sè piace piaccia anco a noi, che solo vediamo ciò ch'egli vede. — Nell'istante medesimo che la narrazione di un'avventura ci scorre innanzi come un torrente, questo diventa secco ad un tratto, e subito dopo udiamo il mormorìo di ruscelli di cui avevamo smarrito il corso, desiderando pur sempre di tornare a trovarlo. Le loro acque si mischiano, poi tornano a dividersi, poi si precipitano in direzioni diverse; talchè il lettore rimansi piacevolmente perplesso al pari del pescatore, che attonito all'armonia de' mille strumenti che suonano nell'isola di Circe, pende le reti.... e ode»[130].

      Con lettera del 9 ottobre 1532 mandò «innanzi a tutti gli altri» un esemplare del Furioso alla marchesana Isabella di Mantova cui sapeva essere gratissime le composizioni di lui (pag. 302): ma quando aveva il maggior bisogno di riposarsi dell'affoltata fatica dell'opera, e godere in tutta quiete le felicitazioni degli amici e degli uomini celebri di quel tempo ch'egli andò sempre più lodando o rammentando nel suo poema, fu costretto portarsi in compagnia d'Alfonso I il 7 novembre in Mantova all'arrivo dell'imperatore; chè il duca voleva spesso l'Ariosto a sè vicino, e molto più adesso per l'ambizione di mostrar nel suo séguito il poeta che ognor saliva in maggior fama e che formava l'invidia delle altre corti.

      In Mantova l'Ariosto presentò a Carlo V il suo poema che in questa edizione lo colmava di lodi, e fu detto che l'imperatore dichiarasse di voler rimeritare il poeta con imporgli sul capo la corona d'alloro. Il pensiero potè essere suggerito dal marchese del Vasto, che anch'esso si trovò per riconoscenza encomiato[131]: ma l'incoronazione solenne, come l'uso e la dignità Cesarea richiedeva, non lasciò forse campo di essere preparata nel breve soggiorno che il monarca fece in quella città, e venne impedita per sempre dalla prossima morte dell'Ariosto[132].

      Dopo l'assenza di oltre un mese, il nostro autore si restituì a Ferrara in istato di assai debole salute; e avendogli il principe Guidobaldo della Rovere richieste alcune commedie che non fossero sino allora rappresentate, gli rispose il 17 dicembre dolersi di non poterlo soddisfare, e gli narrò di aver composte solamente quattro commedie, i Suppositi e la Cassaria rubategli dai recitatori e stampate con suo dispiacere, la Lena e il Negromante recitate soltanto a Ferrara. Gli aggiunse pure che molti anni addietro ne cominciò un'altra intitolata I Studenti che mai ebbe tempo di ripigliare, e che quando la conducesse a fine non potrebbe esimersi che il duca suo signore ed il principe don Ercole non la facessero eseguire nel loro teatro di corte prima che altrove ne fosse mandata copia (pag. 303).

      Il 25 detto mese scrisse anche a nome della moglie una lettera, che è l'ultima che abbiamo di lui (pag. 335): ma costretto poco dopo a mettersi in letto, prevedendo vicino il suo termine, fece l'abbozzo di un secondo testamento in cui lascia un legato alla magnifica Alessandra Strozzi, erede il figlio Virginio, ed un assegno vitalizio all'altro figlio naturale Gio. Battista, chiamato pure a sostituire Virginio nell'eredità.

      La notte del 31 dicembre 1532 «s'accese il fuoco in una bottega di Francesco Zangarino sotto la loggia del palazzo ducale, e irreparabilmente arse tutta la parte dinanzi del detto palazzo dal canto della piazzetta fin sopra la porta del cortile alle due statue di bronzo, e fu cosa orrenda e giudicata prodigiosa. Nella gran sala era la bella e ricca scena dell'Ariosto, che tutta rimase estinta; e quella notte istessa s'infermò il detto poeta, che morì poi il 6 di giugno del seguente anno»[133]. Travagliato, secondo il Pigna, da «un'ostruzione alla vescica, alla quale volendo i medici Bonaccioli, Manardo e Canani, i primi di Ferrara, con acque aperitive porger rimedio, gli guastarono lo stomaco; e soccorrendosi con altre medicine a quest'altra indisposizione, cadde nell'etica», e finì di vivere con dolore di tutti nell'ancor verde età di 58 anni, mesi 8 e giorni 28.

      «Dalla sua casa posta nella via di Mirasole, dove morì, fu portato da quattro uomini notte tempo con due lumi soli alla chiesa vecchia di san Benedetto, accompagnato però da quei monaci spontaneamente e fuori del loro costume; tratti, come scrive il Garofolo, dall'amore che portavano alle sue rare virtù. Ivi fu sotterrato assai semplicemente, com'egli aveva voluto e prescritto nell'ultimo suo testamento»[134]. Il fratello Gabriele desiderava innalzargli un monumento, e il figlio Virginio fece anzi fabbricare una cappella in capo all'orto della sua casa, intendendo trasportarvi le ossa del padre; ma la traslazione non seguì che nel 1573 in un decoroso sepolcro di marmo eretto nella nuova chiesa dei detti monaci a spese di Agostino Mosti che gli fu discepolo, indi nel 1612 in un altro più ricco a spese di Lodovico Ariosti pronipote del poeta, e finalmente nel 1801 con molta pompa e solennità nella pubblica Biblioteca di Ferrara, essendone stato promotore il francese generale Miollis.

      Il figlio Virginio si studiò sempre di onorare la memoria del padre. Raccolse le poesie latine di lui e diedele al Pigna che le stampò colle sue e con quelle del Calcagnini nel 1553: somministrò ad

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