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pag. XVII. — L'amico Bonaventura Pistofilo, erasi offerto di procurargli la carica di ambasciatore ducale presso Clemente VII; ma il poeta dirigendogli la Satira VI ringraziando del cortese pensiero, non si mostrò allettato dall'onore nè persuaso del maggior vantaggio che gli si prometteva; chiedendo piuttosto di essere chiamato a Ferrara, ove trovavasi la Benucci, ed ove ogni cinque o sei mesi era costretto di andare a passarne uno, per non morir dalla noia in Castelnovo[110].

      Sui primi d'aprile del 1525 il duca si decise a richiamare l'Ariosto presso di sè, facendolo sostituire nel commissariato da Cesare Cattaneo ferrarese. Il 26 detto mese l'Ariosto chiese di poter rimanere anche un po' di tempo nell'ufficio per esigere gli assegnamenti suoi del quartirone passato, e il giorno dopo scrisse dolendosi ch'era stata fatta una grave ingiuria al figlio Virginio che teneva presso di sè, quando a motivo della sua partenza non avrebbe potuto ottenerne la dovuta riparazione. Sulla prima domanda il duca rispose il 3 maggio che essendo stato tanto a fargli intendere questo suo desiderio, non lo poteva compiacere perchè il Cattaneo designava di mettersi veramente in cammino per la Garfagnana «fra tre o quattro giorni alla più lunga», onde bisognava lasciare che altri gli procurasse la detta esazione. Quanto alla seconda lettera, aggiungeva: «Vi significamo che avemo inteso con grave nostra dispiacenza il caso accaduto, e ci dispiace che un nostro suddito sia stato tanto ardito e insolente che abbia avuto animo di far violenza ad un figliuolo d'un nostro commissario che in quel loco rappresenta la persona nostra, e commetteremo efficacissimamente a messer Cesare che ne faccia quella severa dimostrazione che merita la natura del caso in sè e la fede e diligenza che voi avete usato in servizio nostro. E state sicuro che noi avremo altrettanto caro che voi conosciate che desideramo e volemo che si faccia esecuzione di questa cosa, quanto voi stesso arete ch'ella si faccia. Infra tanto consolatevi, e state sano».

      L'autorità dell'Ariosto continuò in Garfagnana a tutto il mese di maggio, e il 5 giugno 1525 non essendo ancora arrivato in Castelnovo il Cattaneo, il duca scriveva a messer Lodovico: «lodiamo che lo aspettiate e facciate ogni opra per abboccarvi seco e instruirlo in quel che occorre per l'ufficio, e sarà anche bene per esiger li vostri crediti e avanzi».

      Il Cattaneo giungeva poco dopo alla sua residenza, così descrivendosi dal Carli le circostanze di una tale elezione: «Seguivano ancora (1524) in provincia le sedizioni e i ladronecci, non passando mese che non si contassero questioni, violenze, oppressioni e simili ingiustizie, senza che la diligenza e l'autorità del governatore Ariosti bastasse a porvi il conveniente riparo: ove dimorandovi egli di malissima voglia, faceva di continuo instanza all'A. S. d'esserne rimosso; ma ciò non ostante non ne venìa consolato. Discorrevasi ogni giorno nell'anticamera ducale questo fatto fra molti di que' cavalieri assistenti con varietà di pensieri, quando un Cesare Cattaneo gentiluomo ferrarese ritrovandosi a sorte in corte, nell'udire le rappresentate doglianze dell'Ariosti, rispose aver quello poco spirito, mentre con l'autorità non sapea liberar la provincia da quella sediziosa peste de' fuorusciti: darsi egli vanto, quando gli fosse sostituito, di estinguerne il veleno nel primo mese. Parole che riferite al duca, fu dall'A. S. tantosto determinato che fossero ridotte all'effetto, per far prova se il vanto fosse veritiero o bugiardo: che però fattolo a sè chiamare, dichiarollo governatore di questa provincia, e con la solita spedizione delle patenti qua inviollo a dar la sospirata muta all'Ariosti, che tutto assorto nelle dolcezze di Parnaso, non bastava ad applicare ai rigori di Marte e d'Astrea.

      «Ricevuto il Cataneo dai provinciali con dimostrazioni d'allegrezza nella solita residenza della rôcca di Castelnovo, fece egli tantosto pubblicare un editto, che qualunque bandito per qual si sia delitto uccidesse in provincia il compagno, fosse certo d'ottenere subito la remissione del bando gratis e senza ben minimo dispendio; di che restarono di tal sorte spaventati i fuorusciti, che nel breve spazio d'un mese sgombrarono tutti la provincia e si dileguarono, lasciandola in una perfettissima quiete. Invenzione così ammirata da tutti, che celebrato per l'Italia restonne il Cataneo famoso, applaudito qual Cesare vincitor senza pugna, e trionfante senza contrasto; e ne sarebbe restato in Garfagnana il suo nome immortale, quando non l'avesse poscia egli oscurato con ingiustissime operazioni e con vergognose estorsioni.... onde citato a comparire (nel 1527) a Ferrara.... spaventato dalla reità della propria coscienza negò la comparsa.... e partitosi dallo stato contumace.... fu dopo la formazione del processo dichiarato bandito»[111].

      Ma il Carli si dimostra assai male informato della verità dei fatti che imprese ampollosamente a narrare[112]. Le gride V, VI, e VII da noi stampate in questo volume (pag. 315, 316), provano all'evidenza che l'offerta del perdono ai banditi che uccidessero degli altri banditi in pena capitale non fu un'invenzione ammirata del Cattaneo, ma un'infelice risoluzione presa fin dal 1524 sotto il governo dell'Ariosto; poichè se per essa potevasi scemare la schiera dei tristi, dovevasi al tempo stesso portare lo scandalo e la corruzione in quella dei buoni, accrescendola di uomini malvagi, assolti dai delitti passati mediante un omicidio traditorio di più. È poi falso che i fuorusciti si lasciassero spaventare così facilmente da questi editti e sgombrassero la provincia; chè anche nel maggio 1525, e cioè un anno dopo, l'Ariosto proponeva al duca di far grosse taglie contro i medesimi per estirparli dalla Garfagnana ove continuarono a mantenersi non solo durante il breve commissariato del Cattaneo, ma ben anche per un tempo più lungo d'assai, come si rileva dalla grida che nel 20 novembre 1551 venne pubblicata in Castelnovo; leggendosi in essa: «.... perchè si conosce evidentemente che tutti i latrocinii e assassinamenti che son fatti non procedono da altro, se non tollerando li banditi che stieno nella provincia.... vuole S. S.... che ogni volta.... banditi in pena capitale passeranno per alcuna terra o villa di detta provincia, che subito quelli di detta terra uomini e donne che li vederanno siano tenuti a dargli drieto a suon di campane e gridar ammazza ammazza, e ammazzarli o pigliarli, o vivi o morti, e consegnarli alla corte subito, che gli sarà donato scudi 25 d'oro; altrimenti, non lo facendo ipso facto, s'intenda essere incorsa quella terra nella pena di scudi 100 d'oro in oro, applicabili alla ducal Camera, la quale se li farà pagare senza avergli remissione alcuna, facendo pigliar li primi di detta terra o villa che li capiteranno in le mani.... non avendo rispetto a giovedì[113] nè a ferie a farli incarcerare per esigere la detta pena: sì che ognuno si guardi». — Il rigore di questi provvedimenti e le convenzioni fatte prima colla Repubblica di Lucca, estese poscia col Governatore di Bologna nel 1543 e col duca di Parma e la marchesa di Massa nel 1551, di non lasciar posare in alcun luogo i malfattori, arrestandoli e consegnandoli scambievolmente, portarono alla per fine un po' di pace al paese. Non troviamo che un'egual convenzione fosse fatta per allora coi Fiorentini, sebbene al suo tempo l'Ariosto la riconoscesse necessaria: e forse questi disordini non erano da essi veduti di mal occhio, tenendo viva la speranza di poter un giorno riconquistare la Garfagnana: dovendo osservarsi che tra Ercole II di Ferrara e Cosimo I di Firenze era sorta una grande e vanitosa lite di precedenza per la quale furono sempre nemici; poichè nell'abboccamento avvenuto a Lucca nel 1541 tra Paolo III e Carlo V, il duca di Ferrara, presentatosi con altri principi italiani al cerimoniale corteggio, corse a mettersi alla destra dell'imperatore ed a porgergli alla mensa la salvietta, con volere che fosse fatto rogito di quest'onore di primo grado; onore che Cosimo I, pur esso presente, giudicava invece competere a lui medesimo.

      Anche le fazioni politiche che tenevan divise quelle terre andavano in allora scemando de' loro odii e delle frequenti vendette. Racconta Daniello Bartoli che nel 1547 essendosi condotto colà il padre Landini per dar corso alle fatiche apostoliche, «appena trovò luogo che non fosse tocco da questa maladizione»: ma che la sua parola vi sanò l'eresìa luterana che pur vi conobbe, ed estinse non poche inimicizie passate in eredità da' padri a' figliuoli: cosicchè in Carreggine, nel meglio del predicare, veggendo gli uditori in gran maniera commossi, accennò col dito e chiamò per nome Giovanni Corso capo e mantenitore della fazione francese, ed egli alzatosi per dichiararsi disposto ai desiderî del Landini fece pace colla fazione italiana, come «il fatto si notò su messali di quella chiesa»[114].

      Ritornato l'Ariosto a Ferrara dove il sorriso della sua donna e l'ozio beato delle Muse traevalo; lasciata una gente inculta, simile all'asprezza de' sassi ov'è nata (Satira VI), per trovarsi nella dotta compagnia de' suoi vecchi amici che mai non ebbe nè invidiosi nè finti, potè acquistarsene uno nuovo nel poeta Ercole Bentivoglio venuto anch'esso al servigio del duca, col quale passeggiava di frequente nel cortile del palazzo ragionando e ridendo insieme de' poemi cavallereschi del Cieco da Ferrara, del

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