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sempre l'ingannò»[78], fino a fargli depositare nelle mani dell'imperatore i quarantamila ducati del prezzo di Modena; senza poter però avere nè l'una, nè l'altra città. Nel 1518 il duca andò a Parigi a prestar omaggio al re Francesco nell'alleanza che questi fece col re d'Inghilterra e così implorare più validi uffici all'adempimento delle promesse del papa, ritornando a Ferrara il 20 febbr. 1519. Era in Parigi quando Raffaello Sanzio vi spedì il ritratto di Giovanna d'Aragona uscito dallo studio di lui; e il duca ne provò tale soddisfazione, che in data 29 dicembre 1518 ordinava al suo segretario Obizzo Remo: «Scrivete a Roma a Monsig. d'Adria che faccia sollecitare la mia pittura che fa Raffael da Urbino[79], e che o per il Paulucci o per altri faccia parlare ad esso Raffael, e dirgli che noi desideriamo d'aver il cartone di quella pittura che esso ha mandato qua al Rev. Legato, su la quale è ritratta la signora viceregina di Napoli, e che avendolo ci farà piacere gratissimo a donarcelo: circa che usi il prefato Mons. quella maniera e mezzo che pare a S. S.ria alla quale reputiamo che basti far noto il nostro appetito, conoscendo la prudenza e desterità di Sua Sig.».

      Il 24 giugno 1519 in età d'anni 41 morì per conseguenza di un aborto Lucrezia Borgia[80]. Narrano gli storici di casa d'Este, ch'ella «lasciate le mondane pompe.... impiegava la mattina in orazioni» e che venendo a marito e trovando in Ferrara che «le gentildonne e cittadine usavano abiti ne' quali mostravano le carni nude del petto e delle spalle, così essa signora introdusse il portare e l'uso di gorgiere che velavano tutta quella parte, dalle spalle sino sotto li capelli»[81]. — E dobbiamo credere che Lucrezia, lasciate fra qualche tempo le mondane pompe, conducesse in Ferrara gli ultimi anni di sua vita ossequiente al suo sposo, «e non solo nel vestire, ma anco ne' costumi e religione fosse al popolo di ottimo esempio, esercitando opere pietose «verso i poveri e i letterati, che sono spesso una medesima cosa»[82], specialmente dopo essere rimasta priva del suo più valido sostegno per la morte del papa avvenuta il 18 agosto 1503, cui seguì la rovina degli Stati acquistati a furia di rapine e tradimenti dal duca Cesare, che terminò col cadere anch'esso morto in una imboscata il 12 marzo 1507, combattendo da valoroso in Pamplona al soldo del cognato di Navarra.

      E fu pure Lucrezia celebrata da tutti i poeti e uomini dotti che l'avvicinarono in Ferrara, compreso l'Ariosto il quale nell'Orlando furioso (XLII, 83) giunse persino a collocarla per bellezza e onestà al disopra dell'antica Lucrezia. Ma il Bembo, oltre di averla cantata in versi e dedicatole nel 1504 il suo dialogo d'amore, Gli Asolani, concepì per lei una decisa passione, ed essa accolse nel cuore più che amicizia per lui, come può vedersi dalle lettere che scrisse al Bembo e che si conservano autografe con una ciocca de' suoi biondi capelli nell'Ambrosiana di Milano ove furono pubblicate nel 1859 da Bernardo Gatti.

      L'animo della duchessa di Ferrara in mezzo al suo quieto e riposato vivere fu turbato nel 1510 dalla notizia della morte del suo primo marito Giovanni Sforza, il quale essendosi nel 1504 ammogliato con Ginevra Tiepolo, n'ebbe l'anno dopo un figlio per nome Costanzo che confermò l'ingiustizia colla quale lo Sforza era stato da lei separato con un processo da cui ebbe origine ogni maggior biasimo di Lucrezia in quell'orrido passato di Roma.

      Anche l'abbandono in cui lasciò nella cara età di due anni il figlio Rodrigo avuto dal suo secondo marito Alfonso d'Aragona, senza mai più curarsi di vederlo, e che morì di 13 anni in Bari presso una sua zia; «quali si fossero le circostanze che costrinsero Lucrezia a tenerlo lontano da sè, è certo ad ogni modo che questo infelice fanciullo lasciò sulla figura di lei un'ombra sinistra»[83].

      Nel 1519 il duca, al quale erano riesciti poco utili i bagni d'Abano «per curarsi dai malori contratti in giovinezza,» ammalò gravemente. Leone X spedì il vescovo di Ventimiglia con 600 uomini nel Mirandolese con ordine di occupare Ferrara se avveniva la morte che si credeva inevitabile di Alfonso. Essendo questi risanato, si volle che il papa macchinasse con un Giberto (od Uberto) da Gambara suo protonotario di corrompere con denari Rodolfo Hello capitano della guardia de' Tedeschi di esso duca per farlo uccidere, e che il capitano fingendo di accondiscendere per cavare due mila ducati di mano al protonotario, scoprisse la cosa al duca, il quale ordinò se ne formasse un processo che si conserva in Archivio. «Ed è da notare che il detto papa Leone avea di bocca sua parlato con uno altro Tedesco (Gianni di Malines), che era internunzio in questa materia, ed esortatolo a fare diligente officio; assolvendolo, anzi persuadendolo che non peccava, ma meritava ad aiutare la Santa Sede apostolica ad avere Ferrara, la quale gli dava ad intendere che era occupata dal detto duca Alfonso immeritamente»[84]. Il Muratori dà piena fede al tentativo di assassinio contro il duca ed al processo che questi ne fece fare «in forma autentica, coll'esame di varie altre persone consapevoli del fatto, e con inserirvi le lettere originali del Gambara»[85]: ma noi che pel fatto del notaro bolognese conosciamo come Alfonso I calpestasse la giustizia e volesse giudici che ne salvassero soltanto l'apparenza, moveremo qualche dubbio sulla verità della cosa, e tanto più giacchè ora non troviamo in Archivio che un semplice abbozzo di processo, o meglio narrativa, scritta dal segretario del duca Obizzo Remo, mancante di ogni firma, delle lettere del Gambara e di qualunque altro documento originale, ed ove in mezzo a molte stranezze non si parla però mai di uccidere il duca, ma solo di farlo prigioniero e occupargli a tradimento Ferrara (Doc. XII).

      Il 2 settembre del 1520 morì il cardinale Ippolito fratello del duca per aver mangiati troppi gamberi arrostiti e bevuta troppa vernaccia, di cui aveva sempre «i fiaschi Nel pozzo per la sera in fresco a nona»[86]. Così a papa Martino IV furono fatali «L'anguille di Bolsena e la vernaccia»[87].

      Leone X ormai palese nemico di Alfonso I fece lega nel 1521 con Carlo V per discacciare i Francesi che nel 1515 erano tornati in Italia; e perchè il duca si portò colle sue genti a soccorrerli e liberarli dall'assedio di Parma, spingendosi ancora alla ricupera del Finale e san Felice, il papa prese motivo di scomunicarlo così come aveva fatto Giulio II, essendo stata eguale nell'un papa e nell'altro la brama di estendere il poter temporale anche a vantaggio dei loro nipoti, e di rivendicare Ferrara, tanto più che l'annuo censo, che si pagava alla Chiesa fu ridotto a minima cosa pel matrimonio della Borgia.

      Continuavasi con ardore la guerra contro i Francesi, «e perchè esso papa Leone era entrato in un'impresa nella quale era necessario molta spesa, non potendo con l'entrate ordinarie supplire al bisogno, fece in una volta sola trentuno cardinali, dalli quali tirò grossa somma di denari, senza rispetto alcuno di simonia»[88]. Ottomila Svizzeri guidati dal cardinale Sedunense vennero in aiuto del papa e degli imperiali; sicchè alla fine i Francesi furono costretti a perdere di nuovo Milano e ritirarsi d'Italia. Il duca fu pure spogliato delle terre che aveva riacquistate, e tornò a vedersi ridotto al solo possesso di Ferrara, col sopraccarico dell'esercito del papa che veniva a stringerlo d'assedio e lo minacciava d'imminente eccidio.... Ma la sorte lo salvò un'altra volta mediante la morte di Leone X avvenuta il primo dicembre 1521, non senza sospetto di veleno.

      Nell'estremo pericolo ond'era trascinata la sua famiglia, Alfonso I non poteva contentarsi di cadere onorevolmente colle armi alla mano, chè il suo carattere maligno e vendicativo traevalo a dirigere una Lettera latina all'imperatore Carlo V e agli altri principi cristiani piena di lagnanze ed accuse gravissime contro Leone X; lettera che tradotta in italiano faceva stampare in Ferrara e in Venezia nel mese di novembre 1521. La corte di Roma non tardava dal suo canto a formare una Risposta alla invettiva di don Alfonso inviandola alla stessa Maestà Cesarea, nella quale non solo difendeva la fama vilipesa del pontefice, morto nel frattempo, ma aggiungeva querele infinite contro il duca e gli Estensi, facendola pure stampare in Roma il 6 gennaio 1522 unitamente alla Lettera del duca[89]. Per la somma rarità ai nostri tempi di queste pubblicazioni, che sfuggirono al Roscoe nella sua Vita di Leone X[90], e per l'interesse storico che possono avere, ne daremo in appendice alcuni estratti (Docum. XIII e XIV).

      Lodovico Ariosto frattanto non sarebbe stato del tutto scontento del servizio del duca, che poco molestava i suoi studi e che toglievalo di rado da Ferrara ove sempre a motivo della donna amata rimaneva il suo cuore (Satira IV), se per la morte del cugino Rinaldo Ariosto accaduta il 7 luglio 1519 non avesse subíta una manifesta ingiustizia. Non lasciando il cugino suddetto figli maschi legittimi[91], Lodovico e i suoi fratelli, rimasti eredi ab intestato del defunto, andarono in possesso della ricca tenuta nella villa di Bagnolo, detta delle Arioste, concessa a livello dal duca Ercole I a Francesco Ariosto padre di Rinaldo, allorchè dopo alcuni giorni ne furono dal Fattore generale del duca[92]

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