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ad un tempo far strage di Spagnuoli e Francesi, ed egli rispose: Tirate senza timor di fallare, chè sono tutti nemici nostri; e perciò i morti si fanno ascendere in quella tremenda giornata a diciottomila, metà circa per parte, tra gente di Spagna, di Francia, d'Italia e della Svizzera, a causa specialmente della numerosa artiglieria del duca di Ferrara, il quale fu detto usasse di due cavalli da guerra avvezzati a scagliarsi di salto sopra i nemici e ucciderli a calci! L'animoso petto di Gastone di Foix, non potendo tollerare che li Spagnuoli si ritirassero in ordinanza, gli inseguì con furore; ma rintuzzato di forza, cadde trafitto, e con lui rimase spento anche il fiore de' capitani Francesi. — Se Lodovico Ariosto non fu presente a questa battaglia, v'accorse subito dopo, dicendoci di aver vedute le campagne rosse del sangue barbaro e latino, e per molte miglia il suolo così coperto di morti, che senza premerli non concedeva il cammino. Fu però presente al sacco che il giorno dopo si diede alla miseranda città di Ravenna, ove dai vincitori uscirono crudeltà tali da empiere il mondo d'orrore[50].

      Quest'amarissima vittoria indebolì siffattamente l'esercito francese per la perdita dei capi, che il duca cominciò presto ad accorgersi che su di esso non potrebbe più a lungo fondar speranze d'aiuto. Ascoltò quindi i consigli di Fabrizio Colonna (ch'egli avea fatto prigioniero di guerra, ma che teneva a Ferrara come amico), e volle tentare di riconciliarsi col papa[51]. Per gli offici del marchese di Mantova di lui cognato e per quelli del Colonna ottenne un salvocondotto per trasferirsi a Roma. Il duca partì da Ferrara il 23 di giugno 1512, dopo aver rimessi in libertà i Veneziani che teneva prigioni, e dopo aver mandato avanti Fabrizio Colonna a disporgli accoglienze favorevoli. Giunse in Roma il 4 luglio, in compagnia dell'Ariosto (se pure non lo raggiunse dopo), e il papa gioì di vedere il suo nemico prostrarsegli dinanzi e baciargli i piedi. L'esame delle differenze fu rimesso a sei cardinali che furono favorevoli al duca: ma il papa voleva ad ogni modo Ferrara, e gli propose in cambio la città d'Asti tolta allora ai Francesi, chiedendo ancora gli fossero rilasciati i due prigionieri don Ferrante e don Giulio. Il duca rifiutò di cedere Ferrara e i fratelli!... Giulio II amava don Ferrante che aveva tenuto a battesimo, e bramava poterlo togliere di pena. A quest'ultimo impreveduto rifiuto inorridì dubitando che il duca l'avesse fatto uccidere di nascosto; e qui l'ira, a lui sempre sì facile, scoppiò fieramente. Il duca assicurò che don Ferrante era vivo, ma ripetè perfidiando che non l'avrebbe ceduto, lagnandosi pure che contro la fede del salvocondotto gli fossero state nel frattempo occupate alcune città; e, com'era prevedibile, si lasciarono più nemici di prima. Sul capo del duca rumoreggiava la tempesta, e giunto al suo alloggio scrisse il 17 luglio al cardinale Ippolito col falso indirizzo Ad Alessandro di Cremona la lettera in cifra di cui si pubblica la traduzione, nella quale con animo di inesorabile crudeltà sembra compiacersi di non aver voluto gratificarsi il papa nemmeno col cedere i due fratelli prigioni, e specialmente don Ferrante (Docum. X). Il papa dal canto suo voleva vincerla sul duca a qualunque costo, e non ebbe riguardo a dar ordine che fosse arrestato, facendo prima raddoppiare le guardie alle porte di Roma e così impedirgli una fuga. Seppelo il cardinale d'Aragona che in segreto lo riferì ai Colonna; ed essi a ricompensare il duca «d'aver serbato il suo Fabrizio a Roma»[52] lo travestirono in mezzo a buona mano di armati, sforzarono la porta di San Giovanni e lo trassero a salvamento fuori della città, nascondendolo nel loro castello di Marino. Come il papa lo seppe arse di sdegno, fecelo inseguire d'ogni parte, ma inutilmente: volle almeno vendicarsi su quelli del suo corteggio; e non trovando che il conte Lorenzo Strozzi, lo fece imprigionare: gli altri erano stati avvertiti e fuggirono in tempo. Dodici muli furono presi nel bosco di Baccano carichi de' bauli del duca: ma i bauli, a derisione, eran vuoti, essendosi le robe occultate in diversi monasteri. Tre mesi circa restò il duca nascosto finchè Prospero Colonna venendo in Lombardia con duecento uomini d'arme per unirsi a Raimondo di Cardona il prese con sè or sotto l'abito di cacciatore, or di famiglio, or di frate, e così potè deludere la vigilanza di Antonio della Sassetta che il papa aveva messo fra que' soldati per iscoprirlo. Dovendo poi il duca dividersi dal Colonna, per trovarsi soltanto in compagnia dell'Ariosto, narra questi in una lettera del primo ottobre scritta appena giunto in Firenze, che sembravagli d'essere uscito allora delle latebre e de' lustri delle fiere, ormato in caccia dai levrieri (del papa), e di aver passata la notte antecedente in una casetta di soccorso col nobile mascherato, l'orecchio intento e il cuore in soprassalto (pag. 23). Così finirono le paure sofferte, e il 7 ottobre il duca passò per Castelnovo[53], quindi muovendo dalla strada di san Pellegrino arrivò il 14 dello stesso mese felicemente a Ferrara.

      Il gran concetto di Giulio II di cacciare i barbari d'Italia pareva tradursi ad effetto, giacchè i Francesi incalzati dagli Svizzeri dovettero ripassare i confini: e il papa gloriandosi d'essersi tolto dal collo il più forte nemico, sebbene con armi esterne, lo schernì un giorno il cardinale Grimani, osservando che il regno di Napoli, così ricca e importante parte della penisola, rimaneva pur sempre in potere degli Spagnuoli. Per le quali parole l'animoso pontefice, alzato il bastone su cui sosteneva il cadente fianco e percuotendo con forza lo spazzo, gridò che, Dio concedente, anche quei popoli avrebbero presto imitato il glorioso esempio degli altri[54].

      Il cardinale Ippolito, rimasto nell'assenza del duca suo fratello al governo dello Stato, aveva dovuto perdere Reggio, Brescello, Carpi (ov'era tornato Alberto Pio), Cento, la Pieve e le terre di Romagna, e così depositare in mano del Vit-Furst, che fu mandato governatore Cesareo in Modena, anche S. Felice e Rubiera. Già i Lucchesi approfittando del momento favorevole si erano impadroniti della Garfagnana: già il duca prevedeva l'ultima ruina della tanto agognata Ferrara che sola rimanevagli in potere, e dove teneva concentrate tutte le sue forze per farne gagliardo contrasto, quando nel 21 febbraio 1515 Giulio II morì.

      L'11 marzo Giovanni de' Medici veniva eletto papa col nome di Leone X. L'Ariosto eragli stato amico, e più volte avendo udito ripetergli in Firenze e in Bologna che non farebbe differenza tra lui e il suo stesso fratello, corse a Roma in abito di staffetta anche a nome del duca di Ferrara. Leone X mostrò di udire assai volentieri le parole di omaggio e congratulazione che gli venivano profferte; prese per mano l'Ariosto, gli baciò ambe le gote (Satira IV); ma essendo di cortissima vista, e sdegnando allora di portare l'occhiale, mal potè ravvisarlo: così gli altri amici del poeta, divenuti grandi nuovamente, desiderosi d'imitare il santo padre, mostrarono quasi di non vederlo! (pag. 24). Si fermò Lodovico a Roma all'incoronazione del papa: ma non essendogli stato offerto alcun posto vantaggioso, com'egli se ne lusingava, lasciò Roma non avendo ottenuto che l'esenzione della metà della tassa alla bolla occorrente per succedere allo zio nel benefizio di sant'Agata!

      Nel ritorno passò per Firenze e accadendovi le feste di San Giovanni sentì vaghezza di fermarvisi a conforto dello spirito amareggiato dal disinganno di Roma. In Firenze incontrò Alessandra Benucci rimasta vedova da poco tempo di Tito Strozzi di Ferrara, e quella beltà che non eragli nè peregrina nè nova lo innamorò sommamente. Di que' spettacoli tenne poco ricordo, e poco gliene calse:

      Sol gli restò immortale

      Memoria ch'ei non vide in tutta quella

      Bella città di lei cosa più bella[55].

      E la Benucci accolse e gradì l'amore del poeta, riempì degnamente il vuoto ch'egli aveva nel cuore, gli fu dolce stimolo a completare il suo poema che aveva bisogno di grande opera, nè era limato nè fornito ancora (pag. 22); ed anzi fu detto ch'ella esigesse ogni mese un canto ricorretto del Furioso. L'Ariosto si trattenne in Firenze quasi due mesi nella diletta compagnia della donna amata, ne' cui begli occhi e nel sereno viso andava errando il suo ingegno, ch'egli, vestendo immagini colle grazie d'Anacreonte, chiedeva di poterlo raccogliere colle labbra[56].

      Verso la fine del 1513 essendosi il cardinale Ippolito ridotto a Ferrara, anche l'Ariosto fu obbligato a seguirlo, e così fece poco dopo la Benucci. Ivi terminò di rivedere il suo poema, che nel 1515 cominciò a stamparsi da Giovanni Mazzocco del Bondeno, con essere colà pubblicato il 22 aprile del 1516 in 40 canti; avendo prima chiesto e ottenuto privilegi che lo guarentissero da ristampe arbitrarie. Ne mandò subito un esemplare al cardinale cui era dedicato e che allora trovavasi a Roma: e quando al ritorno del medesimo a Ferrara, che fu il 7 giugno[57], aspettavasi ringraziamenti e favori per averlo sì altamente celebrato con tutti quelli di casa d'Este, udì invece chiedersi dal cardinale: Messer Lodovico, dove mai avete trovato tante corbellerie?

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