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destinata all'esecuzione, lo scalco maneggiando il tossico fu colpito da vertigine, e temendo essersi da sè stesso avvelenato, confessò tutta la trama. L'Ariosto intanto mettevasi in salvo a Ferrara, e il 18 detto mese Cesare Pirondoli insieme al fratello Galasso, che serviva a tavola ed era consapevole della cosa, vennero decapitati e squartati in Mantova[6].

      Poco dopo i fatti narrati, e cioè col primo gennaio 1472, il duca mandava Nicolò Ariosto capitano della cittadella di Reggio, e siccome eravi altresì il capitano della città, nè facendosi sempre dai cronisti la dovuta distinzione fra i due capitani o confondendoli insieme, così alcuni dubitarono che l'Ariosto avesse avuto ancora l'officio di governatore o podestà (come narra il Baruffaldi)[7], quando queste cariche erano date ordinariamente a diversi soggetti.

      E infatti quantunque l'Azzari[8] scriva che nel 1473 l'Ariosto «era stato fatto governatore di Reggio,» mostra troppo chiaramente l'errore involontario in cui cadde, avendoci detto che il giorno 8 agosto dell'anno stesso fu mandato per governatore della città Antonio Sandeo, in sostituzione di Uguccione Rangone morto poco prima nell'officio, essendovi podestà Girolamo Guidone.

      Una lettera del capitano Nicolò (Docum. II) ci conferma che le attribuzioni ch'egli allora sostenne furono soltanto militari: avendo poi essa la data Civitatellae Regii, 28 jan. 1473, possiamo ancora arguire che il capitano abitava fin d'allora nella cittadella, sebbene vi continuassero i lavori di riparazioni.

      Nel settembre 1473 si unì in matrimonio colla Daria figlia di Gabriele Malaguzzi Valeri d'illustre famiglia reggiana, che lo fece padre di dieci figli; il primo de' quali fu il nostro Lodovico, il favorito delle Muse (come lo chiama l'Azzari), nato l'8 settembre 1474 nella cittadella di Reggio: avvenimento che torna a splendido vanto ed onore di quella città che il poeta stesso ricorda con assai compiacenza pel suo nido natìo. «E perchè il sopraddetto Gabriele (continua l'Azzari) fu nella poesia molto raro e stimato, perciò l'Ariosto solea dire d'aver ricevuto l'arte del poetare dall'utero materno» e non dal vero maestro, come legge malamente il Tacoli[9] e come viene riportato dal Baruffaldi[10].

      Un'iscrizione che non ha carattere di sufficiente antichità posta sotto un ritratto di Lodovico dipinto in tela, e posseduto dalla famiglia Malaguzzi, in cui leggesi natus Regii.... in camera media primi ordinis erga plateas, ha fatto ritenere a qualcuno ch'egli fosse nato nella casa materna anzichè in cittadella, la quale per essere in risarcimento eziandio nella rôcca o palazzo del capitano, non poteva prestargli conveniente abitazione. La data della lettera che abbiam riferita sembra convincerci del contrario di ciò che narra soltanto un'iscrizione, che rendesi meno autorevole coll'aggiugnere essere stato il poeta manu propria Caroli V imper. laureatus; incoronazione che lo stesso Virginio figlio naturale di Lodovico dichiara una baia.

      Il palazzo di cittadella era un vasto fabbricato, che nel 1505 accolse Lucrezia Borgia che fuggiva la peste di Ferrara, ed ove partorì un figliuolo[11]: non è dunque difficile che mentre i lavori progredivano da una parte, potesse prestare sufficiente abitazione dall'altra. Questi lavori non erano ancora terminati nel 1496 e pur vi abitava assai prima la famiglia del capitano, come ne dà prova il rogito col quale la Daria Malaguzzi assolve i fratelli della dote pagatale in mille ducati d'oro, pubblicato il 7 maggio 1479, Regii in palatio residentiae comitis Nicolai de Ariostis, in Civitatella[12].

      Stette Nicolò nell'ufficio di Reggio fino alla metà del 1481 in cui fu traslocato capitano a Rovigo. Ciò avvenne in momenti assai critici, poichè le armi Venete minacciavano impadronirsi di tutto il Polesine. Il capitano nel 7 luglio 1482 faceva conoscere al duca di Ferrara che in città non rimanevano che pochi fanti (circa 150), la maggior parte ammalati, che più non potevano far le guardie alle porte, e che «si troverebbe a mali termini quando venisse furia alcuna». Di fatto nel 14 agosto seguente i Veneti entrarono in Rovigo, occupandola in nome della Repubblica. Nicolò Ariosto non ritornò a Ferrara, come dice il Baruffaldi, ma si ridusse a Masi villa del Polesine di san Giorgio, aspettando gli ordini del duca, che forse tardarono, essendo Ercole I gravemente infermo. In una lettera che Nicolò rivolgendosi alla duchessa scrive da detto luogo il 30 ottobre 1482 dice essere da necessità costretto a restare in villa per non avere che mettersi in dosso; chè forse nella furia dell'invasione temuta non ebbe tempo di prendere le sue robe. Di là si ridusse colla famiglia a Reggio, come rileviamo dalla lettera ch'egli vi scrisse il 22 novembre di detto anno (Docum. III), ed eravi pure nel 1483, trovandosi più volte nominato dal conte Paolo Antonio Trotti allora commissario generale in Reggio, mandatovi dal duca ne' momenti più fortunosi del dominio Estense durante la guerra colla Signoria di Venezia; ed anzi il Trotti in una lettera del 17 maggio 1483 ricordando ad Ercole I le antiche promesse fatte all'Ariosto, «avuto etiam rispetto a quello che V. S. ed io sappiamo, che nelli tempi che si operavano gli amici ciò che ha fatto per quella, non avendo rispetto, non che all'onore e alla vita, alla propria anima» (alludendo al tentato avvelenamento di Nicolò d'Este), lo pregava che al prossimo S. Pietro fosse provveduto d'un officio utile ed onorevole, a motivo altresì «delli danni incalcolabili che ha patito a Rovigo, quali in verità lo hanno frusto fino alle ossa; ed è quì a Reggio con bocche XII e compra sino il sole»[13]. Le condizioni d'allora non permisero forse al duca di sovvenire tostamente a Nicolò; ma sappiamo che nel 1486 le terre da lui acquistate nel contado di Reggio (55 biolche circa), «soggette alle gravezze e servitù rusticali, le dichiarò immuni e privilegiate in perpetuo in grazia dell'essersi trasferite in questo suo nobile e domestico gentiluomo»[14]; come altresì in detto anno fu nominato giudice dei dodici savi, officio che tenne per tre anni[15], a capo de' quali, e cioè dal febbraio 1489 al marzo 1492, ebbe il capitanato della città di Modena.

      Finalmente nel 1496 passò commissario ducale in Lugo di Romagna, e vide quelle popolazioni stremate dalla fame, dal contagio, dalle inondazioni. Ma non fu in sì difficili circostanze che incontrò il biasimo di tutti; fu un atto d'ingiusto e crudele rigore a cui lasciò trasportarsi dal suo carattere severo e irascibile.

      — Col favor della notte un uomo era solito entrare in una delle più civili abitazioni di Lugo, accolto dalla donna che amava. Il capo della famiglia ignorava la cosa; ma venutone col tempo in sospetto, riescì una volta a sorprendere colui, che dandosi a sùbita fuga lasciò disgraziatamente il mantello. Colla prova sotto gli occhi del fallo, il dabben uomo, forse padre o marito, diè luogo ad un giusto risentimento con parole clamorose, che udite di leggieri in quell'ora tacita da qualche indiscreto vicino o da chi per caso passava allora per via, furono riportate al commissario. Il mattino dopo venne questi chiamato dinanzi all'Ariosto. L'uomo prudente aveva già preso il partito che più stimava convenire all'onor di sè stesso e de' suoi, e, interrogato, negò francamente l'accaduto. Il commissario chiese allora gli fosse consegnato quel mantello che avea rinvenuto, sperando con quello di poter riconoscere il colpevole; ma essendo stato ciò pure negato, l'Ariosto giunse al brutale eccesso di far uso della tortura, e così strappare fra i tormenti una confessione che avviliva e gettava nella maggior vergogna l'uomo innocente, degno soltanto di elogio. — Il Baruffaldi[16] dice che il commissario, persuaso di aver bene operato, ne scrisse al duca; ma che questi lo privò immantinente dell'impiego (24 novembre 1496), lo condannò a una multa di 500 ducati d'oro, nè più lo ammise ad altre cariche. Fra le molte lettere che di Nicolò Ariosto si conservano in Archivio, non abbiamo quella accennata dal Baruffaldi, nè crediamo probabile ch'ei potesse quasi vantarsi dell'eccesso commesso. Troviamo invece che il duca lo aveva altre volte ripreso di usar modi e parole troppo aspre co' suoi dipendenti: ed egli con lettera del 7 marzo 1482, ringraziando dell'amorevole correzione «non da principe a servo, ma che sarìa da equiparare a Cristo quando correggeva gli Apostoli suoi», soggiungeva: «Io non ho sì poco intelletto, nè son di natura tanto iracondo, Ill.o Signor mio, ch'io non mi sappia molto ben temperare dove bisogna.... e mi porto con quella reverenza e carità che si conviene, e che so essere la mente di V.a Ill.a Signoria.» — Così l'antico adagio, che noi raramente conosciamo i nostri difetti, trova sempre conferma.

      Nicolò nel 1486 ritornato con la famiglia a Ferrara, pose il figlio Lodovico, in età di undici anni, a scuola di latino, con obbligarlo più tardi a darsi contro sua volontà allo studio delle leggi, volgendo testi e chiose, ch'egli chiama ciance, pel corso di cinque anni. A capo de' quali, e cioè nel 1494, accorgendosi il padre che Lodovico erasi distolto dai gravi studi raccomandatigli per attendere unicamente a quelli per lui sì graditi della

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