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di ritorno. L'infelice don Giulio restituivasi tranquillamente a Ferrara ignaro della sorte che lo attendeva, quando ad un tratto videsi assalito e stramazzato di cavallo. Il cardinale lo circondò de' suoi uomini che lo ammortirono di percosse, e, cosa incredibile ma pure certissima, stando egli proprio a vedere[24], fecegli con acuti stecchi cavare ambidue gli occhi. Compiuto appena il delitto, il cardinale, sperando allontanare da sè il primo sospetto nell'animo del duca, corse a dargliene avviso come di cosa che allora vociferavasi per la città; e poco dopo don Giulio veniva portato in palazzo, deforme nel viso, tutto coperto di sangue. A quest'orribile vista che nella famiglia degli Estensi ritraeva in parte quanto di più crudele rappresentaronci i greci «di Tiesti, di Tantali e di Atrei»[25], fu detto che il duca Alfonso salì in ira tale, che rovesciò la tavola ove trovavasi a mensa; e conoscendo a più indizî onde il fatto procedesse, cacciò da sè il cardinale, ingiungendogli di sortire dai confini. Allo sgraziato don Giulio si apprestavano intanto le cure maggiori: l'occhio sinistro, non essendo stato intieramente staccato dall'orbita, rimesso al posto, riacquistò col tempo un poco di luce; il destro era affatto perduto.

      Sparsa la fama di tanto abominio e dei risentimenti del duca, il cardinale fu sollecito di prevenire le gravi conseguenze che doveva aspettarsi dal papa: e perciò, avendo fatto fuggire que' suoi famigliari, scrisse l'8 novembre a Beltrando Costabili protonotario apostolico e oratore ducale a Roma, che si presentasse a Giulio II e che, baciatigli i piedi a nome di lui, gli esponesse il caso occorso per opera de' quattro famigliari a motivo di certe inimicizie passate con alcuni domestici del fratello don Giulio, e che intendendo i primi che vi era pure qualche differenza tra esso cardinale e il fratello medesimo, non avevano creduto fare ingiuria al loro padrone. Che però egli ne provava il più grande dolore ed affanno, e che, sebbene fosse persona ecclesiastica, non restava di fare ogni opera per avere i malfattori nelle mani, i quali sino allora non si erano potuti trovare. Terminava poi con raccomandarsi alla solita desterità del reverendo oratore; cui fu agevole in questa parte accomodare la cosa. Ed è a rimarcare che la minuta della lettera stessa preparata da un segretario, e che rinvenimmo nel nostro Archivio, ha correzioni di mano del cardinale che ne moderano artificiosamente l'importanza: chè dove diceva cercarono estinguergli la luce degli occhi mutò in batterono negli occhi, vi soppresse le parole delitto e cosa facinorosa, ed a scelleranza sostituì scandalo (Doc. IV).

      Si scoperse in breve che uno de' famigliari colpevoli chiamato Francesco Verdezino si era riparato a Venezia. Il duca chiese in favore di averlo in sue forze; e se da principio gliene fu data speranza, il governo veneto dichiarò poco dopo che per le raccomandazioni avute in contrario dal cardinale, il quale era riguardato come buon figliuolo della serenissima Repubblica, non sarebbe consegnato. Venne quindi scritto dal duca al suo ambasciatore Sigismondo Salimbeni in data 2 dicembre 1505, di far intendere alla Signoria di Venezia, che non avesse rispetto all'interposizione del cardinale, ch'egli era pure figliuolo ed anzi primogenito di quella, e perciò meritevole di essere preferito e in amore e in compiacenza, ad impulso altresì della causa giusta che lo moveva in confronto dell'altra del proprio fratello: ma ogni preghiera rimase inutile, benchè dèsse fede che non piglierebbe sulla persona del malfattore alcuna risoluzione che non fosse a grado della Repubblica (Doc. V).

      La collera del duca durò poco per altro; ond'egli, abbandonate le esigenze, tornò ad avere il cardinale in somma grazia e favore. L'ingiustizia colla quale perdonavasi al medesimo, lasciando impunita e dimenticata l'offesa commessa sopra don Giulio, trasse questi a concertarsi coll'altro fratello don Ferrante di far uccidere il cardinale e il duca; l'uno per vendicarsi, l'altro per impadronirsi dello Stato di cui aveva ambizione. Ma il cardinale temeva, e vegliava gli andamenti di don Giulio: videlo in grande intimità con il detto fratello, con Albertino Boschetti conte di san Cesario e con Franceschino Boccaccio da Rubiera camerlingo di don Ferrante; onde avvertito il duca del sospetto che in lui erasi destato, furono tosto imprigionati il Boschetti, il Boccaccio e due staffieri dello stesso don Ferrante, che fra i tormenti confessarono la congiura. Alla notizia dell'arresto don Giulio fuggì in Mantova presso il marchese Francesco Gonzaga cognato di lui. Gherardo Roberti capitano de' balestrieri e genero del Boschetti, con certo Gianni prete di Guascogna, cantore ed intrinseco del duca, entrambi complici della trama, fuggirono l'uno a Carpi, l'altro a Roma. Don Ferrante non curò di mettersi in salvo, e chiamato al cospetto del duca se gli gettò ginocchioni, domandando perdono di un attentato che non fu condotto ad effetto. Il duca non ebbe pietà pel suo fratello. Avendo inteso ch'ei diede ascolto alle insinuazioni di don Giulio per vendicarlo del cardinale Ippolito, l'assalì al viso con una bacchetta che allora trovavasi in mano, e percuotendolo e gridando di volerlo eguagliare a don Giulio, giunse con inaudita barbarie a cacciare ancora a don Ferrante un occhio dalla testa[26]! Il marchese di Mantova consegnò poi vilmente don Giulio, e si ebbero pure gli altri due fuggitivi. Vennero decapitati il Boschetti, il Roberti, il Boccaccio nel giorno 12 settembre 1506: messi in quarti, si attaccarono alle porte della città, e le teste confitte in tre lancie stettero gran tempo a terrore dei riguardanti sopra la torre della Ragione. Il prete Gianni fu collocato in una gabbia di ferro fuor della torre del castello, esposto alla vista del pubblico, di mezzo verno, con un par di calze di tela e un grigio su la camicia, oltre ad avergli tagliate sul vivo le unghie[27]; poichè, essendo prete, forse Roma nel consegnarlo diede il veto di ucciderlo. Dopo sette giorni fu però strozzato dentro la gabbia, «significandosi che l'avesse fatto di sua posta»[28]. Del cadavere fu fatto abominevole strazio, attaccandolo per i piedi ad una carretta, trascinandolo per la città, poi sospendendolo per l'un de' piedi a un alto stilo sopra del ponte di Castel Tedaldo in Po, fin che disfacendosi cadde da sè stesso nell'acqua. A don Giulio e don Ferrante il duca fece erigere un palco nella corte del castello, ed invitata a spettacolo la nobiltà del paese, i due sfortunati fratelli coll'impronta nel viso delle sevizie sofferte salirono su di quello in compagnia del carnefice: le loro teste già stavano per essere recise con orrore e raccapriccio di tutti; quando il duca, a farsi proclamare principe clemente, fratello amorevole, fece loro grazia della vita, condannandoli a perpetua prigione: «don Giulio in un fondo di torre, e don Ferrante di sotto da lui, con finestre di tre doppie di ferro»[29].

      Non era ancor bene accertato chi fosse la donna che destò la forsennata gelosia del cardinale Ippolito. Il Frizzi[30] la dice una damigella per nome Angela, la prima tra le molte che Eleonora d'Aragona all'epoca del suo matrimonio col duca Ercole I condusse seco da Roma e che era ancora sua parente. Il Litta[31] afferma invece che questa damigella era Isabella d'Arduino gentildonna napoletana. Ma i due scrittori non osservarono che tanto l'Angela che l'Isabella, se vennero a Ferrara coll'Aragonese nel 1473, dovevano trovarsi all'epoca dei fatti che narriamo presso i cinquant'anni; età non atta a destar siffatte passioni. Oltre di ciò l'Isabella fu anche l'amica del duca Ercole I, la madre di don Giulio, poi da tempo la moglie di Giacomo Mainetto. Niuno certo crederà che le lodi date da una madre agli occhi di suo figlio e che non potevano suscitar gelosia, fossero riguardate dal cardinale non solo «come poco cortesi, ma altresì come una sentenza che chiudeva a lui l'adito alle grazie dell'avvenente napoletana», come il Litta continua a chiamarla. Non può dunque esser questa la donna che cerchiamo scoprire; ma conoscendo che dopo le nozze di Lucrezia Borgia con Alfonso d'Este celebrate in Roma nel gennaio 1502, fra le damigelle che accompagnarono la sposa vi fu pure un'Angiola Borgia sua parente (chiamata anche sorella del cardinale Borgia), che si fermò a Ferrara, ed era dotata di straordinaria bellezza[32], non esitiamo di riconoscervi la donna da cui ebbe origine l'empio fatto del cardinale.

      Quanto a Lodovico Ariosto, al quale è tempo di far ritorno colla nostra narrazione, venuto al servigio del cardinale, ed essendo questi stato eletto vescovo di Ferrara nell'ottobre 1503, gli offerse tributo di alcuni versi latini pieni di adulazione, e che terminano con lodarlo di castità[33]! Due anni dopo accadde il tristo caso narrato; ed il poeta conoscendo che sarebbe stato impossibile levarne la colpa dal cardinale, cercò renderla men odiosa al medesimo componendo un'Egloga[34] nella quale parla dell'ordita congiura, col tacere i motivi che vi diedero origine: e accrescendo i falli di don Giulio, e designandolo di mente invida, ingordo di adulterii (che pur sono due de' principali difetti del cardinale), nega persino ch'ei fosse figlio di Ercole I, ma bensì di chi ebbe l'Isabella Arduino in custodia, per ridurre almeno il delitto del suo signore sopra chi non eragli fratello. Fa di Lucrezia Borgia la donna casta, dicendo che quanti la conobbero prima di essere venuta a far parte della famiglia d'Este, lodavano più della bellezza leggiadra, l'ingegno

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