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alla Camera ducale. I fratelli Ariosto supplicarono al duca, che, essendo stato «dal suo Fattore lor fatto così espresso e manifesto torto, si degnasse dar loro qual si volesse altro giudice dal Fattore in fuori, dinanzi a cui s'avesse a conoscere e decidere di ragione questa causa. Non poterono ottenerlo, anzi S. Ecc. li rimesse pure a detto Fattore. Onde non potendo essi farne altro, furono sforzati cominciare la lite in Camera, dove fu agitata, e instrutto il processo, pubblicati li testimoni e condotta la causa sino alla sentenza: alla quale instando essi, il Fattore per l'odio che portava gratis a mess. Lodovico, e per rispetto di lui a tutti gli altri fratelli, non comportò mai che se ne potesse vedere il fine»[93]. L'odio di Alfonso Trotti fu creduto derivare da due sonetti satirici contro il medesimo, «i soli (dice il Polidori) in cui trascorresse la musa italica di Lodovico»[94] e vennero in luce soltanto nel 1741 per averli trovati di suo pugno fra le carte possedute dal seniore Baruffaldi. Ma non siamo però certi che fossero composti dall'Ariosto, il quale dice che l'odio portatogli dal Trotti era gratis, e cioè senza avergliene dato motivo (se pur non fu simulato per coprire gli ordini del duca), mentre anzi il poeta lo ricorda nel suo Furioso, XLI, 4. — Crediamo invece che appartengano all'autore della serie de' sonetti maledici contro Cosmico, i quali trovansi stampati fra le Rime di Antonio Cammelli detto il Pistoia (Livorno, 1884, pag. 223 e segg.); e chi li confronterà coi due creduti dell'Ariosto, speriamo che assolverà il nostro autore dall'attribuitogli trascorso.

      Di Rinaldo Ariosto pubblichiamo una Lettera assai confidenziale, in data del 7 giugno 1505, posseduta prima dal Mortara, che la disse bellissimo documento per conoscere la qualità del morbo ond'egli ebbe a morire[95]; permettendoci però noi di osservare che dall'epoca della lettera alla morte di Rinaldo passarono più di quattordici anni (Doc. XV).

      Uno de' primi incarichi dati da Alfonso I a Lodovico fu quello di portarsi ad Urbino per condolersi della morte di quella duchessa moglie di Lorenzo de' Medici il giovine: ma giunto il 4 maggio 1519 a Firenze, intese che anche il duca d'Urbino era morto, onde non andò oltre; ed anzi dopo pochi giorni si restituì a Ferrara, ove il 6 giugno lo vediamo spedire al marchese di Mantova la sua Cassaria, ch'eragli stata richiesta (pag. 30). Il 7 luglio diedegli pure notizia della perdita del cugino Rinaldo: e avendo fatto sapere a Mario Equicola che trovavasi immerso in litigi (per la contrastata eredità), ringrazia il 15 ottobre questo suo amico che si offriva di assisterlo coll'opera propria, narrandogli che attendeva a fare «un poco di giunta al Furioso.... ma poi dall'un lato il duca, dall'altro il cardinale, avendomi l'un tolto una possessione che già più di trent'anni era di casa nostra, l'altro una possessione di valore appresso di dieci mila ducati[96], de facto e senza pur citarmi a mostrare le ragion mie, m'hanno messo altra voglia che di pensare a favole. Pur non resta per questo ch'io non segua, facendo spesso qualche cosetta» (pag. 33). — Il 16 gennaio 1520 terminò di comporre la commedia intitolata il Negromante per desiderio di Leone X, e gliela mandò perchè fosse recitata in quella corte in cui l'anno avanti si era data colla maggiore splendidezza possibile l'altra sua commedia I Suppositi, avendo la scena dipinta da Raffaello, e stando il pontefice alla porta per regolare l'entrata degli spettatori, impartendo loro la sua benedizione! Chè la corte di Leone X, partecipando alla generale corruzione, era troppo amante dei sollazzi profani; e abbiamo una lettera di Alfonso Paolucci al duca di Ferrara in data di Roma 8 marzo 1519 che non potrebbe più al vivo ritrarci «i costumi del secolo e dell'uomo che gli diè il nome» (Doc. XVI)[97]. L'Ariosto aggiunse al Negromante un nuovo Prologo ove dirige al papa elogi assai lusinghieri; ma vi mescola con acuta ironìa la liberalità nell'assolvere di omicidi e di voti,

      «E se pur non in dono, per un prezio

      Che più costan qui al maggio le carciofole![98]»

      È poi importante questo Prologo venendosi per esso a conoscere che l'autore faceva tesoro dei vocaboli della lingua parlata che più gli piacevano, e che diede opera a Firenze, a Siena e per tutta Toscana ad apprenderne l'eleganza e nascondere le forme della pronunzia lombarda. Di cotale studio si prevalse con sagacia nel suo Negromante che aveva in gran parte composto dieci anni addietro, e nel quale introdusse tanti cambiamenti da non vederci più il consueto idioma, e cominciò pure a giovarsene nella ristampa che nel 13 febbraio 1521 pubblicò in Ferrara dell'Orlando furioso, ch'eragli da tutte parti richiesto, non trovandosi allora alcun esemplare in commercio della prima edizione. Però un libraio di Verona, che n'ebbe parecchi da vendere per conto dell'autore, scusavasi di non pagarli per intiero, allegando una rimanenza: ma l'Ariosto scriveva all'Equicola di verificare la cosa, «chè troverà che i libri sono venduti e che quel libraro vuole rivalersi di quelli denari» (pag. 36). Nel frontispizio di questa seconda edizione il poema dicesi con molta diligenza corretto e quasi tutto formato di nuovo e ampliato, rimanendo però circoscritto ne' quaranta canti di prima. A rifarsi in parte delle spese di ristampa, l'Ariosto ne cedè subito col 16 febbraio cento copie al libraio Giacomo Gigli di Ferrara per il prezzo di sessanta lire marchesane. Il libraio doveva venderle sedici soldi l'una, avendo così il venticinque per cento di sconto; e fino a tanto che quelle cento copie non erano esitate, l'autore non poteva disporre di alcuna delle rimanenti presso di lui, nemmeno in regalo[99]. Oggi un esemplare della suddetta ristampa si venderebbe ad altissimo prezzo.

      Il duca di Ferrara liberato due volte dai più estremi pericoli colla morte di Giulio II e con quella di Leone X, si credè il favorito della fortuna, e fece battere cinque monete d'argento allusive alla circostanza, due delle quali rappresentavano da una parte la sua effigie, dall'altra un uomo che toglie un agnello di bocca a un leone col motto de manu leonis, mentre in gran fretta portavasi durante l'interregno a ripigliare i suoi Stati. Ebbe il Finale, San Felice, le terre di Romagna, e per interne rivoluzioni anche il Frignano e la Garfagnana. — Il 9 gennaio 1522 fu assunto al papato Adriano VI, l'ultimo cardinale fatto da Leone X e precettore di Carlo V, nato da bassi parenti, fiammingo d'origine. Era in Biscaglia al momento dell'elezione, e il duca vi mandò un suo ambasciatore a far atto di ossequio, informarlo dei torti sofferti, e chieder giustizia. Il nuovo pontefice liberò il duca dalla scomunica, lo lasciò al possesso di quanto aveva ultimamente ricuperato e lo confermò nell'investitura di Ferrara, comprendendovi anche il Finale e San Felice per far credere queste due terre della Camera apostolica, sebbene ritenute spettanti al feudo imperiale di Modena. Il duca mandò poi a Roma il suo primogenito Ercole, che in presenza del papa e del sacro Collegio perorò la restituzione di Modena e Reggio. Il discorso fatto francamente in lingua latina da un giovinetto di soli quattordici anni, che ritraea le bellezze della Borgia sua madre, sorprese e interessò i cardinali i quali gli corsero attorno abbracciandolo come fosse un loro congiunto. Ma papa Adriano rispose: «Se quelle città, che dici essere di diritto di tuo padre, le avessi racquistate nel tempo della Sedia vacante, più facilmente potrei confermargliele; ma poichè le possiede la Chiesa, acciocchè non sembri che ne sia spogliata, non sono per darle a nessuno. — Queste parole studiosamente raccolte da Alfonso l'ammonirono a tempo che cosa dovesse fare, morto il pontefice»[100]. — Anche l'imperatore Carlo V proponeva di restituire Modena e Reggio al duca purchè gli pagasse cento cinquanta mila ducati: ma il papa titubava sempre dichiarando di non poterlo permettere; finchè accadde la di lui morte il 14 settembre 1523. Alfonso I non tardò allora di mettere in pratica gli insegnamenti di Adriano, e mosse le sue genti riconquistando Nonantola, indi Reggio e Rubiera. Erasi pure portato sotto Modena, ma il celebre Guicciardini che n'era governatore e Guido Rangoni che ne comandava la guarnigione, accresciuta in previdenza di 1500 Spagnuoli, la mantennero sotto il governo della Chiesa. Il cardinale Armellino camerlengo in Roma formò un nuovo monitorio contro il duca come invasore degli Stati ecclesiastici: però il Collegio de' cardinali tornò a chiudersi in conclave prima che il monitorio fosse spedito, e il 19 novembre dell'anno stesso Giulio de' Medici divenne papa col nome di Clemente VII.

      Lodovico Ariosto aggravato di spese per la lite colla Camera ducale e per la ristampa del suo poema avea troppo bisogno dello stipendio assegnatogli in corte; pur si adattò a vederlo uscir lento od anche affatto sospeso, finchè durarono le esigenze della guerra: ma gli dolse accorgendosi che anche in migliorate condizioni la mano del duca seguitava a tenerglisi chiusa. E tacendo in Milano in mezzo all'armi le leggi, nè potendo perciò ricavare alcun vantaggio dal beneficio della cancelleria di quell'arcivescovato, ricorse al duca affinchè lo levasse di bisogno, o gli concedesse di cercarsi altrove da vivere (Satira V).

      Accadde allora che

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