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e le due sorelle videro con qualche maraviglia quel giovane andare a paro con loro. Tutti e tre a un punto alzarono il capo affissandole; poi quando furon passati, or l’uno or l’altro si volgeva e ridevan tra loro.

      Laudomia che s’era affacciata si ritrasse indietro e per la prima volta arrossì: le parve quelle risa l’offendessero, e provava quasi un senso d’umiliazione e di rimorso senza saper perchè. In ogni modo, docile a quella interna misteriosa voce che per le giovani è pur guida saggia e sicura quanto l’esperienza, e vien detta il Pudore, d’allora in poi, quando venivano a passar cavalli, non s’affacciò e non guardò più in istrada.

      Ma la povera Lisa benchè ammonita dalla sorella a far lo stesso, testina com’era, fece pur troppo altrimenti. La prima volta aveva come Laudomia guardato il bel giovane; in appresso, senza volerle dar retta, quando sentiva nascer lontano lo strepito del cavallo sul lastrico abbassava il capo, arrossiva, e fattasi alla finestra pareva guardasse tutt’altro, lasciando però cader l’occhio tratto tratto sul cavaliere che passava.

      La buona Laudomia non penò un pezzo ad avvedersi di ciò che v’era sotto: ne toccò leggermente con poche parole la sorella, che se l’ebbe quasi per male negando risolutamente: ma il suo viso era divenuto come una vampa di fuoco. Laudomia conobbe come stava la cosa e tacque.

      Ben sapeva che aveva un capo da non guidarsi con un fil di seta.

      Difatti il cuor della Lisa era buono, l’animo generoso e leale, ma la madre, che la teneva un portento e si struggeva di qualunque cosa le venisse fatta o detta, non avea conosciuto, o troppo tardi, quanto funesto sia quell’amore, che per risparmiare qualche lagrimetta ad una fanciulla, trascura d’avvezzarla a non creder che ogni cosa ed ognuno debba sempre piegarsi alle sue voglie. Usa a volere fin da piccina, non potea patire che non le si andasse a versi: usa alle lodi, (e potean dirsi adulazioni) della madre, ogni minima correzione che altri s’attentasse a farle, stimava nascesse da malevolenza; e dove una direzione saggia ed autorevole avrebbe potuto renderla donna d’alto pensare, e d’animo costante, lasciata in balìa di se stessa s’era fatta piuttosto altera ed ostinata.

      Intanto da quelle prime parole in poi dette da Laudomia alla sorella sul fatto del giovane, mai più erano entrate su questo proposito. E siccome fra due persone che sogliono dirsi scambievolmente ogni loro pensiero, nulla tanto genera freddezza, quanto l’avere una corda che da ambedue si sa non doversi toccare, così era nata tra loro, non dirò ruggine precisamente, ma insomma ognuna non vedeva più l’altra coll’occhio di prima.

      Laudomia sapeva troppo che parlare alla sorella del suo amore (quantunque inesperta s’avvedeva bene che amore doveva chiamarlo) e non mostrarsele favorevole, era andar a rischio senz’altro frutto, d’allontanarsela affatto. Parlar contro coscienza e lusingarla, non era capace d’averne neppure il pensiero; onde taceva e badava a pregar Iddio la salvasse da tanto pericolo.

      Ma ogni giorno più s’andava avvedendo che le sue preghiere non eran esaudite, e che il cuor della Lisa diveniva sempre più infermo. La vedeva a mano a mano venirsi cambiando ne’ modi e nell’aspetto, e trascurare ciò che sin allora le era piaciuto: certi bei fiori che teneva sul terrazzo dell’ultimo piano e de’ quali, coltivandoli di sua mano, avea preso sempre grandissimo piacere, appassivano per non venir annaffiati. Un piccolo uccellino che era il suo caro ebbe quasi a morire, che per due giorni era rimasto senza panico. E ciò, che più di tutto rammaricava la Laudomia, la vedeva trascurare gli atti della religione, o andar molto rimessa nel modo d’adempierli. Ognuna di queste osservazioni era una puntura al cuore dell’ottima Laudomia.

      Venne intanto il giorno di Calendi-maggio, festa che si celebrava in Firenze dalle Potenze e dalle giovani specialmente con balli ed altri spassi; e vestite de’ migliori panni, incoronate di fiori, concorrevano a veder giostrare, correre la chintana, o far al calcio. Lisa e Laudomia andarono a veder la festa con una loro parente, e trovandosi in piazza S. Croce, in una gran folla, che è, che non è, la Lisa non si vide più; nè per quanto la cercassero venne lor fatto di rintracciarla.

      Tornò però a casa poco dopo di loro, e se Niccolò e gli altri non ne fecero gran caso come d’accidente assai ordinario in quelle confusioni, Laudomia, ancorchè non lo dicesse, l’intendeva altrimenti, e le si avvolgevano per la mente mille sospetti. Ma essa ne sapeva più degli altri. Per tutta quella sera la Lisa, ancorchè facesse ogn’opera per parere come al solito, non potè però nascondere all’occhio indagatore della sorella un certo sbigottimento, un non so chè di nuovo nella guardatura ed in tutta la persona.

      Laudomia notando questi sintoni d’un amore sempre crescente che la tenean ravvolta tra mille oscuri e dolorosi sospetti avea giusti motivi di provarne amarissima afflizione. Vedeva troppo bene che non era da sperarne virtuoso fine. Il giovane era di parte Pallesca: di quella parte, che aveva recato al padre ed a tutta la sua casa infiniti mali, che s’era sempre mostrata nemica delle antiche leggi, e dell’antica libertà di Firenze. Era pur da supporre che Niccolò volesse aver per genero uno di quella setta? Aggiungi a tutto ciò, che la giovane domandando destramente e senza far parer di nulla ai fratelli o agli amici di casa qual fosse costui, aveva udito sul fatto suo cose che molto le dispiacevano. Ch’egli era un Messer Troilo degli Ardinghelli, cagnotto de’ Medici, uomo cortigiano e di rotta vita.

      A questi motivi che riguardavano gl’interessi della famiglia e della parte, un altro se n’aggiungeva intimo e domestico.

      Nel fondaco di Niccolò lavorava un giovanetto di prima barba che sin da piccolo fanciullo s’era allevato in casa ed avea nome Lamberto. Costui era nato molto umilmente. Suo padre, lavorante dell’arte di Por S. Maria[19], per la sua fede e per esser di buonissimo ingegno era venuto in grado a Niccolò, che di povero operajo, l’aveva tirato su fino a costituirlo capo d’ogni sua faccenda. Quest’uom’ dabbene pagò col sangue gli obblighi ch’egli aveva al suo benefattore.

      Quando, addì 6 di aprile del 1498, i nemici di Fra Girolamo assaltarono il convento e la chiesa di S. Marco, moltissimi Piagnoni, e fra essi Niccolò, con Pietro padre di Lamberto, concorsero, e vi si rinchiusero per difenderlo. Durò la battaglia molte ore della notte, essendo quei di fuori in gran numero, e combattendo con armi d’ogni sorta, con archibusi e sassi, e facendo quei di dentro grandissima resistenza, non altrimenti che s’usa nell’espugnazione d’una rocca. Il padre co’ suoi frati, dopo esser andato processionalmente per tutto il convento, si ridusse in chiesa e, preso nel tabernacolo il Sacramento lo pose sull’altare, e messisi quivi in orazione cantavano tutti insieme «Salvum fac populum tuum domine et benedic haereditati tuae» aspettando di punto in punto il martirio. Benchè il padre non volesse consentire che s’usassero l’armi per difenderlo, Fra Domenico da Pescia, e molti nobili cittadini, fra quali erano Francesco Valori, Battista Ridolfi e T. Davanzati, si strinsero intorno e deliberarono ribatter coll’armi i loro avversarj, i quali consumata col fuoco la porta della chiesa, alla fine v’entrarono in folla attaccando battaglia di mano, furiosissima co’ Piagnoni e co’ frati, la quale durò molte ore. Un novizio chiamato Herico, tedesco, salito sul pergamo con un archibuso ammazzò di molti nemici, ed ogni volta che dava fuoco diceva anch’esso «Salvum fac Populum tuum domine ecc.» Ed un frate de’ Biliotti con un crocifisso di ottone cavò un occhio a Jacopo di Tanai de’ Nerli, e ciò sia detto per dar idea quali fossero codesti tempi.

      Niccolò, che aveva allora 58 anni, combatteva in mezzo alla chiesa rimpetto l’altare della Madonna, ed aveva allato il suo fedel Pietro (così aveva nome il padre di Lamberto) il quale avvistosi d’un tale cui Niccolò non poneva mente, che con un partigianone gli menava un gran colpo che l’avrebbe passato banda a banda, non trovando altro modo a ripararlo si gettò frammezzo, e ricevette nel petto il ferro che gli uscì per la schiena, ed il suo sangue innondò da capo a piedi Niccolò.

      Corsero alcuni frati, come usavano con chi cadeva, e raccolto il ferito lo portarono presso l’altare ove, presa con grandissima letizia la comunione, e ringraziato Iddio di quella morte, volse a Niccolò, che gli reggeva il capo non senza lagrime, gli occhi moribondi, e gli disse: «Io lascio la Nunziata ne’ setti mesi.... vi sia raccomandato il mio figliuolo, o figliuola che sia....» e senza poter dir altro rese l’anima a Dio.

      Da quel punto, come ognuno può immaginare, egli tenne cura grandissima della

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