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a V. E.; oltracciò ho potuto capire che hanno in progetto lasciar finire questa causa, e subilo che sia conchiusa, richiedere i prigioni per la causa della fede, e tradurli qua, dove, dicono alcuni, se si giustificano intorno alla fede, sfuggiranno quest'altra pena, o per lo meno ne sarà l'esecuzione poco rigorosa, come accade nelle cause dell'inquisizione. V. E. vedrà ciò che si conviene fare. Abbastanza buono sarebbe che agisse in guisa da far commettere al Nunzio la causa della fede, perchè fatte costi le prove e riusciti convinti di qualcuno de' due delitti, non avendo null'altro da far provare, si possa meglio insistere per l'esecuzione della sentenza, chè se non si rimette costà il fare questa causa, passa pericolo che si porti qua». Il consiglio del Manrrique, senza mostrare un negoziatore di alta levatura, mostra un uomo accorto, ed è superfluo dire che fu presto seguito.

      Il Nunzio ricevè le lettere del Card.l S. Giorgio per mezzo dello stesso Governo di Napoli, poichè sovente le staffette Regie servivano anche per lui, e il 10 dicembre, avuta un'udienza, fece conoscere la risoluzione di Roma al Vicerè, il quale già ne era informato e potè comunicargli la risoluzione sua di deputare il Consigliere D. Pietro de Vera d'Aragona clerico di prima tonsura. Costui era spagnuolo e veramente assai distinto magistrato, Consigliere dal 1588, «erudito e giusto» come lo disse il Toppi23; ma apparteneva ad una famiglia tutta devotissima al Governo, avendo pure un cugino, Diego de Vera, in funzione di Pro-segretario del Vicerè appunto a quel tempo, inoltre uno zio, Francesco de Vera, Ambasciatore di S. M.tà presso la Repubblica Veneta. Il Nunzio, che lo conosceva, ebbe a dichiararlo «uno de' principali del detto Consiglio, così in lettere come in altre qualità»24. E si offerse subito a cominciare la causa «etiam senza il Breve»; ma riferendo queste cose a Roma espresse pure la sua opinione che passerebbe altro tempo prima di cominciare, ed intanto potea venire il Breve, «per non haver a mettere le lettere in processo per fondar la giuriditione». Più tardi, il 17 dicembre, riferì la comunicazione fattagli dal Vicerè dell'aver già nominato il De Vera per Giudice e lo stesso D. Giovanni Sances per Fiscale, la visita fattagli da costoro in sèguito di questa nomina, e la sua novella offerta di esser pronto a trattare la causa; ma aggiunse che il Vicerè stimava a proposito «aspettar detto Breve quanto alli ecclesiastici, poichè intanto si potea trattar contro laici». – Oramai, concluso l'affare, il Vicerè non avea più tanta fretta, o voleva egli pure un documento il quale suggellasse ciò che si era ottenuto e che lo rendeva molto soddisfatto. Questa sua soddisfazione rilevasi da una lettera che mandava a Madrid fin dal 13 dicembre, insieme con una copia della relazione di D. Alonso Manrrique, rilevandosi in pari tempo la sua costante premura che il Campanella fosse gastigato e l'annunzio della prossima esecuzione di altri laici già condannati25 «… S. S.tà si risolvè di fare quanto V. Mtà potrà comandar di vedere da questa copia di lettera di D. Alonso, che non mi pare si sia fatto poco; e così ho nominato D. Pietro De Vera, che è il Decano del Consiglio, tanto per le molte e buone parti che tiene, quanto per essere tonsurato, e credo che l'avrà per molto bene; stimai anche nominare fiscale lo stesso D. Giovanni Sanchez, e Mastrodatti il medesimo; così comincerà subito a procedersi nel negozio, e di ciò che farà il dottore Marco Antonio de Ponte co' laici si darà copia a D. Pietro de Vera e al suo compagno pel procedere contro i frati e clerici. Odo che contro il Campanella sono ben provati tanto il delitto della ribellione quanto il delitto dell'eresia; procurerò, se posso, che si faccia giustizia pel primo, sebbene non riesca a persuadermi che li vogliano tradurre a Roma per l'eresia; ma, per sì o per no, farò istanza che quanto riguarda l'Inquisizione si rimetta qui al Nunzio. Di alcuni de' laici che sono convinti o confessi comincerà a farsi giustizia secondo la colpa di ciascuno; di ciò che si farà andrò dando conto a V. M.tà» etc.

      Adunque il Vicerè poteva tenersi certo che il Campanella non la scamperebbe, e facendo trattare in Napoli anche la causa dell'eresia, per lo meno veniva ad assicurarsi che il povero frate non sarebbe mai più sfuggito dalle sue mani. Vedremo che il far trattare la causa dell'eresia in Napoli, non offendendo la giurisdizione, fu accordato senza la menoma difficoltà, laonde non si ebbero controversie da questo lato, e con la promessa del Breve sulla costituzione del tribunale per la congiura nel modo convenuto, ebbe realmente termine la contesa giurisdizionale. Noi abbiamo voluto esporla in tutti i suoi più minuti particolari, giacchè essa non rappresenta una delle contese ordinarie, e i suoi particolari soltanto possono dare qualche luce su' fatti che si svolsero di poi, sull'andamento e sugli esiti de' processi. Naturalmente il processo di congiura pe' laici sottostava all'azione, legale a que' tempi, del Vicerè e del Consiglio Collaterale, e il processo di eresia per gli ecclesiastici sottostava all'azione legale del Papa e della Sacra Congregazione Cardinalizia; basta dire che le sentenze erano profferite dai Giudici così come le imponevano le risoluzioni superiori dietro la relazione de' fatti delle cause. Ma sul processo di congiura per gli ecclesiastici chi avrebbe avuto influenza? Certamente col Breve Papale il Nunzio ed il Consigliere sarebbero risultati «Delegati Apostolici», ma poteva attendersi dal Consigliere che si fosse posto alla dipendenza del Papa e non già del Vicerè? Il fatto è che ciascuna delle due parti avea presa la sua strada, che il corso delle trattative ci fa vedere in un modo abbastanza chiaro, e ci permette di giudicare in un modo meno fallace. Dalla parte del Vicerè si voleva il gastigo del Campanella e degli ecclesiastici più compromessi, conforme al gastigo che già era stato dato e si continuava a dare ai laici; bene o male si credeva alla congiura e la si voleva punita. Dalla parte del Papa si voleva riconosciuta «la superiorità ecclesiastica», che «tutto apparisse fatto coram Judice ecclesiastico» secondo le espressioni del Nunzio; e ritenendosi non esservi «nulla da accertare in quanto al Re», si voleva che non mancasse «il tutore» agl'inquisiti, secondo l'espressione del Manrrique. Ora se così ritenevasi, se conoscevasi pure essere stato malamente condotto in Calabria il processo primo e fondamentale da fra Cornelio, occorreva una tutela efficace, ed è agevole intendere che quel Breve sarebbe venuto a tutelare i diritti giurisdizionali, non le persone degl'inquisiti; è agevole anzi intendere che il desiderio di un tutore rappresentava piuttosto un argomento per non lasciarsi strappare del tutto le prerogative ecclesiastiche. Anche ammettendo, come noi ammettiamo, che il Campanella fosse stato giuridicamente colpevole, sarebbe stata giusta l'istituzione di un tribunale che avesse data guarentigia d'imparzialità, e l'espediente al quale si era ricorso non poteva riuscire a darla; poteva solo creare nuovi imbarazzi, come difatti li creò, senza giovare efficacemente al povero Campanella. Vedremo a suo luogo i termini ne' quali il Breve fu redatto, vedremo anche la condotta che tenne il Nunzio ulteriormente, e rimarrà dimostrato appieno ciò che qui affermiamo.

      È tempo ora di occuparci della vita che menava il Campanella e tutta la turba degl'infelici venuti di Calabria: ecco quanto possiamo dirne, secondo le notizie che si trovano sparse qua e là nel processo e nelle altre scritture di S.to Officio. Una parte de' carcerati trovavasi nel Castello dell'uovo, e fra essi il Barone di Cropani, Ferrante Ponzio, Gio. Paolo e Tiberio Carnevale, Jacobo e Ferrante Moretti, Francesco Antonio d'Oliviero, Marco Antonio Giovino, Geronimo di Francesco, Giuseppe Grillo, Felice Gagliardo; la parte maggiore trovavasi nel Castel nuovo, e ci basterà nominare solamente Geronimo del Tufo, Maurizio de Rinaldis, e insieme con tutti gli altri ecclesiastici ed anche co' parenti suoi il Campanella. Mano mano molti carcerati dal Castello dell'uovo passarono del pari nel Castel nuovo, e segnatamente Ferrante Ponzio, Francesco Antonio d'Oliviero etc.; ma perfino un anno e mezzo dopo questo tempo di cui parliamo ve n'erano sempre alcuni nel Castello dell'uovo, p. es. il Gagliardo. Gioverà rammentare in breve qualche particolarità del Castel nuovo, poichè non ci mancano elementi per definire la parte di esso occupata da' carcerati calabresi, il torrione in cui il Campanella fu rinchiuso, ciò che ci sembra dover riuscire interessante al cuore di ogni persona bennata. Come conoscono gli amatori delle cose patrie, nel Castel nuovo si distingue il maschio o castello Angioino del 1283, fornito delle cinque maestose torri, due delle quali verso il mare e tre verso terra, e la falsabraca o revellino Aragonese del 1486, con le sue torri e cortine molto basse, poi successivamente elevate, che a' giorni nostri abbiamo visto con poco giudizio spianare. A' tempi de' quali trattiamo, la falsabraca con le sue torri in gran parte quadre era incomparabilmente più bassa di quanto possiamo ben ricordare averla vista, e le cinque torri del maschio, veri torrioni si elevavano un poco di più sul livello de' bastioni rispettivi, i quali non raggiungevano l'altezza attuale, come si può vedere abbastanza bene p. es. dalla gran carta di Napoli incisa da Alessandro Baratta nel 1628, che ogni amatore

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<p>23</p>

Ved. Toppi, De origine omnium tribunalium, Neap. 1655-66, vol. 2o, pag. 187.

<p>24</p>

Il Nunzio gli era anche molto amico, siccome si rileva da un'altra sua lettera del 1o giugno 1601, dove si legge: «Fra tutti i Ministri che son qua di S. M.tà Cattolica non ho maggiore domestichezza che con il Consigl. Pietro di Vera d'Aragonia, che mi fu dato per Collega da N. S.re nella causa della rebellione».

<p>25</p>

Ved. Doc. 38, pag. 43.