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carcerati suoi, la qual cosa pure era stata antecedentemente consentita. Dapprima andò presso di lui lo Xarava, a fine di persuaderlo che essendo costoro imputati di ribellione, non si dovevano rimettere al foro ecclesiastico; di poi vi andò D. Alonso Manrrique a nome del Vicerè per lo stesso oggetto, e quest'ultimo si servì di un mezzo abbastanza adoperato dagli alti ufficiali spagnuoli, quello cioè di mantenersi nelle grazie di Roma e al tempo stesso nelle grazie della Corte di Madrid che si mostrava tanto tenera per Roma, scovrendo e compromettendo gli alti ufficiali napoletani; «questi Ministri, egli diceva, che pretendono che nel caso di ribellione possa procedere il Principe di propria autorità, potrebbero fare qualche male offitio alla Corte di S. M.ia contro S. E.». Ma il Nunzio, che a queste parole riconosceva subito la grande devozione del Manrrique verso Sua B.no, non poteva cedere, e in una udienza avuta dal Vicerè sostenne assolutamente che gli ecclesiastici dovessero tenersi come carcerati suoi, giusta gli ordini che da un pezzo e ripetutamente aveva avuti da Roma; tuttavia «per facilitare il negotio» diè «speranza» che S. S.ta avrebbe accordato l'intervento di un ufficiale Regio negli esami di essi intorno alla congiura, tanto più che il Vicerè gli fece destramente intendere che voleva intervenirvi di persona, ed egli ne rimase preoccupato. Così, in dato, del 12 novembre, fu scritto dal Vicerè al Castellano, che tenesse gli ecclesiastici carcerati in nome del Nunzio, e da costui, con la relazione di tutto l'andamento dell'affare, fu scritto a Roma che sarebbe bene accordare l'intervento di un ufficiale Regio negli esami degli ecclesiastici. – Pertanto, procuratasi una copia del biglietto del Vicerè, il Nunzio mandò subito a chiedere al Castellano se il biglietto gli fosse pervenuto, e il Castellano rispose che l'avea ricevuto, ma che nel tempo medesimo gli era stato detto di non dargli esecuzione se il Nunzio non si fosse recato personalmente in Castello! Queste tergiversazioni continue, e il disegno mostrato dal Vicerè d'intervenire egli medesimo negli esami degli ecclesiastici, davano a pensare al Nunzio che si volesse intaccarne la giurisdizione. E in siffatto senso, il 16 novembre, egli scriveva a Roma, aggiungendo che, se fosse costretto a fare qualche cosa, proporrebbe di lasciar trattare prima la causa dell'eresia, per la quale si dava anche premura di notare che era disponibile soltanto il Vicario Arcivescovile di Napoli, trovandosi assente il Vescovo di Caserta, e però bisognava ordinare chi dovesse sostituirlo, laddove così fosse sembrato a Roma12. Il Vescovo di Caserta D. Benedetto Mandina de' Clerici regolari, già Nunzio in Polonia, era a quel tempo il «Ministro della S.ta ed universale Inquisizione» o «Inquisizione de Urbe», successo in tale ufficio al Vescovo di Sorrento Mons.r Baldino morto nell'aprile 1598; trattandosi di un processo clamoroso e non ordinario, dovendovi essere un tribunale più largamente costituito, egli appariva un giudice naturalmente designato.

      Si può ben dire che dalla parte del Vicerè e de' suoi ufficiali, più del solito fine di custodire la giurisdizione Regia, vi fosse una grande diffidenza verso Roma; questo riuscirà sempre più chiaro in sèguito, ma fin d'ora è già chiaro abbastanza. Quantunque ognuno de' Regii si fosse affrettato a dire che evidentemente il Papa non teneva mano a' disegni del Campanella, in fondo nessuno dimenticò giammai che il nome del Papa era stato pronunziato come quello del gran motore dell'impresa; e così, per anni ed anni, il sospetto di una segreta protezione di Roma non fu mai abbandonato da tutti i Vicerè ed alti ufficiali, e influì anche troppo sulle loro determinazioni intorno al Campanella. Dalla parte di Roma, quasi non occorre dirlo, non eravi il benchè menomo interesse pel povero frate, ma tutti i pensieri erano rivolti a far «conoscere la superiorità ecclesiastica» giusta un'espressione del Nunzio; eppure avrebbe dovuto oramai farvisi strada anche il sospetto, poichè i dubbii già concepiti sulla bontà de' procedimenti usati con quegli ecclesiastici, nella Calabria, ricevevano una potente conferma dalle spiegazioni orali che fra Cornelio dava in Roma appunto a quei giorni.

      Fra Cornelio, venuto co' carcerati in Napoli, dopo di aver consegnato al Nunzio i processi ne' quali avea rappresentata quella parte che conosciamo, si disponeva ad andar subito a Roma, e da una lettera del Nunzio si rileva che dovè partire il 12 novembre13. Intanto non avea mancato di visitare nel Castel nuovo almeno taluno de' frati carcerati. Dalla testimonianza di un altro carcerato per delitti comuni, inserta nel processo di eresia, sappiamo che visitò fra Silvestre di Lauriana, ed ecco in che modo fu riferita questa visita: «venne una volta un certo frate rossetto compagno del visitatore di Calabria, et fra Silvestre li dimandò alcuni dinari quali erano stati contribuiti in Calabria dali conventi, et massime che fra Silvestre disse haver detto tutto quello che havea voluto detto frate rosso llà in Calabria, et questo frate rosso lo consolò, dicendo che non poteva patere cosa alcuna perchè esso era solo testimonio, è così li diede nove carlini»14. Naturalmente dovè vedere ancora qualche altro, ma non ce n'è rimasta alcuna notizia: sappiamo invece che giunto col procaccio in Roma, fu subito interrogato dal S.to Officio, e i risultamenti dell'interrogatorio si leggono ne' Sommarii del processo di eresia15. Noi abbiamo già avuta occasione di darne un cenno altrove (ved. vol. 1.o pag. 259). In sostanza venne a dichiarare che prima fra Domenico da Polistina e poi il Soldaniero, e il Vescovo di Catanzaro e gli ufficiali Regii gli comunicarono tutte quelle cose che egli registrò nel processo; non potè determinare e neanche legittimare la provenienza di parecchie gravi accuse contro il Campanella, espresse nelle lettere che avea già scritte al Generale dell'Ordine e al Card.l di S.ta Severina, sia quanto a detti e fatti del Campanella, sia quanto alla diffusione delle eresie di costui in molti paesi che avea specificatamente indicati; non potè dare altre informazioni al di là di quelle inserte nel processo, mentre in più lettere aveva affermato di poterle dare meglio a voce. Per tutti i versi egli «non soddisfece», e in verità sarebbe stato ragionevole un buon processo contro questo malvagio frate; ma si conosce che uno de' lati più deboli del S.to Officio, sia amministrato da' Commissarii speciali sia dagli Ordinarii, era appunto il rispettare coloro i quali bene o male davano prova di zelo nella scoperta delle cose d'Inquisizione. Così la città di Napoli non potè mai ottenere, malgrado i più insistenti reclami, che ad evitare le tante testimonianze false nelle cause di S.to Officio fosse lecito di conoscere i nomi de' testimoni; Roma vi si negò ostinatamente, non dissimulando che preferiva il rischio di avere testimoni falsi al rischio di non trovar testimoni, e contentandosi di ovviare alle testimonianze incerte con le ripetute, pazienti, laboriose informazioni. Vedremo che questo precisamente accadde nella causa del Campanella, non senza aggravare nell'animo del Vicerè e de' suoi ufficiali il sospetto che si volesse, con le lungaggini, sottrarre il Campanella e i frati inquisiti al gastigo che si meritavano. Ma se in Roma non rimaneva più dubbio che il processo era stato iniziato malamente, non si sarebbe anche dovuto ingenerare il sospetto per l'intervento degli ufficiali Regii nella causa della ribellione e tanto più rifiutarsi ad ammetterlo? Così avrebbe dovuto essere; ma si conosce, o almeno si conosceva ottimamente da' padri nostri, che Roma scansa volentieri la lotta con chi si mostra duro.

      Il 17 novembre il Card.l S. Giorgio scriveva che S. S.tà stimava ragionevole l'intervento di qualche ufficiale Regio nella causa della congiura, e parimente la venuta del Vescovo di Mileto alla presenza del Vicerè; stimava insomma ragionevoli tutte le dimande Vicereali, se non che dichiarava dovere il Nunzio permettere all'ufficiale Regio «d'intervenire in effetto ma non già d'ingerirsi nel resto, et spetialmente nelle materie tangenti al S.to Officio», dovere inoltre ad ogni modo assicurarsi bene che fossero i prigioni «custoditi come prigioni suoi, et tenuti a sua libera dispositione». Evidentemente c'era un singolare contrasto d'idee, una indeterminazione curiosa, una voglia mal celata di rendere la concessione illusoria. In un'altra lettera del 19 si ripetevano le medesime cose, dicendosi, quanto agli esami degli ecclesiastici, che S. S.tà «giudicava conveniente che mentre s'interrogavano delle materie concernenti tal congiura, v'intervenisse qualcheduno per il Fisco Regio conforme all'instanza del Vicerè», donde parrebbe che volesse concedersi tutt'al più la presenza di un Avvocato fiscale Regio: dichiaravasi poi S. Stà molto soddisfatta del vigore mostrato dal Nunzio nella difesa della giurisdizione, avendo «preteso vanamente i Ministri regii di procedere di propria autorità nel caso, et nelle persone de i sodetti». Ma la Corte di Napoli non aveva preteso di assistere vanamente al giudizio, sibbene di prendervi parte, poichè aveva anzi preteso che il tribunale dovesse comporsi tutto di laici, e i Ministri Regii non erano tanto dolci da contentarsi delle semplici apparenze, onde la quistione ebbe a durare ancora un pezzo. – Nella stessa data del 19, il Nunzio poteva

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<p>12</p>

Ved. Doc. 54, pag. 51.

<p>13</p>

Ved. Doc. 52, pag. 50.

<p>14</p>

Ved. Doc. 365, pag. 365.

<p>15</p>

Ved. Doc. 394, pag. 455 e seg.ti.