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il Pizzoni, in quelle cartoline, chi fosse stato quel frate che, secondo la cronaca di S. Domenico, ebbe dalla B.ta Vergine la rivelazione che mai monaco di S. Domenico sarebbe stato eretico, se molto tempo innanzi non avesse deposto l'abito, e diceva di confidare che avrebbe potuto facilmente ritrattarsi, e ricordava diverse autorità, come il Cipolla Veronese, che permetteva dir cose di eresia a' condannati a morte per essere protetti dal S.to Officio, e S. Girolamo che concedeva il mendacio ad evadendam mortem. E il Campanella, conservando presso di sè alcune cartoline più importanti, scrisse sulle altre «che havea fatto molto bene, et che frà Domenico Petrolo à sua persuasione havea seguitato l'esempio d'esso frà Gio. battista, con l'istesso intento di ritrattarsi, et che quel frate della revelatione ut supra fù Reginaldo si ben si ricordava etc., et li diede esso Campanella molte altre authoritati per tal difesa». Ma passato e ripassato tra loro questo Breviario, ed esaurite le cartoline, cominciarono a scrivere sul Breviario medesimo, ove poteasi vedere di mano del Campanella scritto «bene et fideliter… ut lacrimas emiserim prae laetitia», ed inoltre «Micheas propter timorem mortis prophetavit falsum, et adiuratus se se retractavit, 3.o Reg. 24». E il Campanella si diè anche premura di far sapere queste cose a fra Dionisio che stava in un'altra segreta; ed avendogli mandata scritta «dentro un pasticcio una cartella di simili andamenti, entrati in sospetto li carcerieri, aprirono il pasticcio, et trovata la cartella quella presentarono al Vice Rè, come anco per veder così scritto et scacacciato il Breviario, quello anco presentorono al medesimo Vice Rè, et si disse, che furono da lui rimandate al fiscale». Siffatte cose, verificatesi durante un certo periodo di tempo, furono poi riferite da fra Dionisio; e potrebb' essere che vi sia stata qualche esagerazione da parte del relatore, ma bisogna convenire che nulla vi s'incontra d'inverosimile, salva sempre la quistione della serietà delle cose che si comunicavano i due scrittori nelle cartoline e nel Breviario. Poichè all'uno ed all'altro, sotto tutti gli aspetti, conveniva scrivere in quel senso; ma si può dubitare che esprimesse la verità il Pizzoni, il quale infatti non fece di poi nulla di ciò che scrisse, e si deve dubitare che esprimesse la verità il Campanella, il quale, mentre dicevasi allietato fino alle lagrime, ad ogni buon fine metteva in tasca qualcuna delle cartoline scritte dal Pizzoni, che egli oramai avea potuto ravvisare «bilingue». Vedremo infatti che al momento in cui il Campanella fu spogliato per essere sottoposto alla tortura, gli fu trovata una delle dette cartoline, ed anche un sunto dell'esame del Lauriana certamente scrittogli da costui, il quale soltanto può dirsi avere agito in buona fede, ma sotto l'impero di una stringente necessità; poichè evidentemente, spinto dal Pizzoni, si era posto in un brutto garbuglio, da cui non sapeva in qual modo districarsi, e temeva molto che ritrattandosi sarebbe capitato male. – Dobbiamo aggiungere che pure con Maurizio il Campanella si mantenne in relazione, e, a quanto sembra, dalla finestra, verbalmente, profittando del trovarsi le rispettive carceri l'una sopra l'altra; ma non dovè di certo sollecitarne la ritrattazione, ed invece si dovè forse scusare presso di lui. Come si seppe in sèguito, continuò a dirgli qualche particolare sugli uomini e sulle cose della ribellione disegnata e tanto acerbamente prevenuta: ma una volta Maurizio, abbandonata ogni illusione, gli disse che in que' travagli loro «era tempo di riconoscere Iddio, e che stava scandalizzato di quella parola che havea detto in Stilo, che Giesu christo era un'huomo da bene», immaginandosi esser lui «in opinione che christo non fusse vero figliolo di Dio»; e il Campanella gli rispose che lui, Maurizio, «non intendeva bene li negotii» nè si curò di fornirgli spiegazioni.

      D'altra parte, dicevamo, il Campanella attese a dare animo agli amici: questo fece componendo Poesie, siccome troviamo ricordato dal Syntagma, dove per altro se ne parla con una completa confusione di tempi. Per fortuna, la raccolta che noi pubblichiamo, essendo stata fatta in un periodo ben determinato e relativamente breve, ci mette in grado di potere fino ad un certo punto assegnare alle diverse poesie la propria data, oltrechè ci fornisce precisamente quelle composte fin da principio e con lo scopo di rinforzare l'animo degli amici, rimaste poi naturalmente inedite perchè compromettenti. Ma è facile intendere che pochissime potrebbero riferirsi ad un periodo anteriore al cominciamento de' processi, perocchè a questi si pose mano con sollecitudine, e il maggior numero si collega con le vicende del processo della congiura così de' laici come degli ecclesiastici; laonde, per non scindere di troppo l'esposizione di queste poesie, gioverà dapprima narrare ciò che sappiamo del processo della congiura, e in sèguito ricercare le poesie da doversi dire composte nel periodo in cui il detto processo fu istituito e svolto.

      II. Veniamo dunque al processo della congiura pe' laici31. Dicemmo che la commissione Vicereale fu data il 15 novembre a Marco Antonio d'Aponte e a D. Giovanni Sanchez o Sances, con l'ordine di riconoscere le informazioni e gli atti di Calabria, procedere sommariamente sine strepitu et forma Judicii, e non ritardare la buona e breve amministrazione della giustizia, servendosi di Giuliano Canale per Mastrodatti. Vedemmo pure avere il Vicerè provveduto che lo Xarava aiutasse il Sances, e scritto a Madrid, il 30 novembre, che si andava già procedendo contro i laici, e il 13 dicembre, che si sarebbe cominciato a far giustizia di alcuni. Gli ordini del Vicerè furono eseguiti puntualmente, ed è chiaro che non si perdè tempo; solo dobbiamo notare che a Giuliano Canale venne sostituito Marcello Barrese, il quale servì da Mastrodatti egualmente nella causa della congiura per gli ecclesiastici, e di tale sostituzione ci rimane tuttora ignoto il motivo.

      Secondo il costume del tempo, si procedeva separatamente e successivamente per un determinato individuo o per un determinato gruppo d'individui, e si sentenziava a misura che si compivano gli atti ad essi relativi: così vi furono condanne ed esecuzioni in Calabria, e poi in Napoli, ed analogamente vi furono altre condanne od invece assoluzioni di tempo in tempo. Trovandosi due già condannati a morte in Calabria, Maurizio de Rinaldis e Cesare Pisano, sopra di essi appunto cominciò a svolgersi l'opera del tribunale, certamente per averne, se fosse stato possibile, rivelazioni in danno anche degli altri, al quale scopo si era giudicato meglio tenerli ancora in vita; con gli atti relativi a costoro ebbe ad iniziarsi il 3.o volume del processo, al sèguito di quelli compiuti in Calabria. Maurizio non avea confessato nulla malgrado gli orribili tormenti avuti; ricominciarono per lui in Napoli gli esami e ricominciarono i tormenti non meno crudeli. Il Campanella medesimo cantò che Maurizio il primo avea vinto i tormenti antichi e sprezzato i nuovi, che avea sofferto tormenti inusitati per trecento ore32. È facile qui vedere una esagerazione poetica, ma, come abbiamo già avuta occasione di dire altrove, Mons.r Mandina, il quale fu più tardi Giudice dell'eresia e potè saperlo in modo autentico, affermò che era stato tormentato per settanta ore, alludendo con ogni probabilità a' soli tormenti avuti in Napoli. Per quanto possiamo giudicarne, egli dovè soffrire due volte, a breve intervallo, il tormento della veglia, ne' modi e forme che vedremo con tutti i loro particolari in persona del Campanella, il quale lo soffrì in sèguito, per una volta sola, nella causa dell'eresia. Comunque il tormento della veglia dovesse durare quaranta ore, pe' modi enormemente aspri con cui si amministrava sopratutto in Roma e in Napoli, quasi mai si giungeva a siffatto termine, senza che il paziente cadesse in tale prostrazione da far cessare la prova innanzi tempo, tanto più che il Giudice era tenuto a rispondere della morte di lui se avesse soccombuto nel tormento; e la prostrazione, quando gl'individui erano di buona tempra, ordinariamente si verificava fra le trenta e le trentacinque ore, ed ecco le settanta ore di tormento affermate dal Mandina. Nè rappresenta una difficoltà il leggersi «tormenti inusitati», poichè appunto tra questi era annoverata la veglia, e vi si ricorreva soltanto per casi straordinarii, mentre poi d'altra parte i Giudici di professione, a differenza de' «Capitani a guerra», doveano pure contenersi in quelle categorie di tormenti, che erano ammesse da' Giuristi e dalle consuetudini di ciascun paese33. Ad ogni modo le prove furono terribili, eppure vennero nobilmente superate da Maurizio: il fortissimo uomo non fece la menoma rivelazione, soffocando qualunque rancore, mentre già conosceva di essere stato nominato fin troppo nella Dichiarazione del Campanella! Ma durante i tormenti venne senza dubbio fatta la protesta che lo s'interrogava «citra prejudicium probatorum»; e poi, benchè non confesso, era pur sempre convinto, e gli si potè confermare la sentenza di morte, condannandolo ad essere appiccato e squartato certamente con la formola del tempo, «suspendatur in furcis adeo quod anima a corpore segregetur, eiusque cadaver in quatuor frustra dividatur». È superfluo poi dire che la sua casa doveva essere demolita ed aspersa di sale, e i suoi beni dovevano essere confiscati: «domus propria diruatur funditus,

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<p>31</p>

Rimanga ben chiaro che il processo fu propriamente intitolato «di tentata ribellione»; solo pel vantaggio della brevità noi diciamo «processo della congiura», la quale maniera di esprimerci è del resto consentanea all'altra anzidetta, e certamente preferibile a quella che troviamo pure usata negli Atti e ne' Carteggi, cioè «processo di ribellione».

<p>32</p>

Ved. i Doc. 441 e 442, pag. 551.

<p>33</p>

Abbiamo fatto avvertire altrove (vol. 1.o p. 303) che potevano i Giudici, pe' delitti di lesa Maestà servirsi de' più gravi tormenti, ma non di tormenti nuovi. Qui aggiungiamo che lo stesso Farinacio cita la veglia, aggravata da successive modificazioni, col precetto «non habeatur nisi in vere atrocissimis ut laesa Majestate, assassiniis famosis et similibus» (De indiciis et tortura Ven. 1649 p. 348). Aggiungiamo ancora che Maurizio, malgrado fosse nobile, poteva essere sottoposto a tortura trattandosi di lesa Maestà, ed anzi a tortura più atroce, perchè «Nobilitas saepe auget delictum» secondo la massima del Gigante (De crimine les. Majest. Ven. 1588 fol. 67).