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gelido trabalzo

      Urtolle il core, ma passò qual lampo.

      – «Lo conoscete? »

      «Arrigo mio, perdona

      Se ti sorrido… Io sì che lo conosco

      Quello scortese. Un dì, male avviato,

      D’ignote genti a dimandar qua venne;

      E, nel partirsi, inavvertito, a terra

      Spinse Adolfetto nostro.»

      E, proferendo

      Le mendaci parole, un’aria assunse

      Di maraviglia, d’innocenza e pace.

      Ei la guardò; ma l’ineffabil riso

      Tuttavia nei sereni occhi brillava.

      Caderle ai piedi, stringerla, baciarla

      E ribaciarla; e non finir di dirle

      Mille accorate e mille dolci cose

      Fu per Arrigo un punto. Era oblïato

      L’orgoglio inglese in quegli atti d’amore!

      E l’abbracciava il misero!…—

      Un istante

      Che allentato si fosse il tempestoso

      Urto di quella ebbrezza, avria sentito

      Tremar sotto gli amplessi orribilmente

      Le colpevoli membra, e sotto i baci

      Farsi di gelo la convulsa bocca.

      CANTO TERZO

      O giovinette, gioia vereconda

      Delle case materne, a cui dovrebbe

      Vergin campo d’amori esser la terra,

      Quand’io vi veggo rotear ne’ balli,

      Di rose e gigli incoronate il crine,

      Quand’io v’ascolto ne’ giocondi crocchi

      Le memori narrarvi ore del chiostro,

      O le speranze del futuro amante,

      Non vi sorrido; ma pietà mi stringe

      Dolorosa di voi, che imprenderete

      La dura via tra poco. Una celeste

      Larva è l’amor, che spanderà d’ebbrezza

      La vostra notte; ma sull’alba gli occhi

      Vi nuoteran, senza saperlo, in pianto.

      Deh, se più tarda del desìo vi splende

      La visïon delle ridenti nozze,

      Deh non v’incresca, o giovinette, il vostro

      Vergine asilo e il queto orto materno!

      Deh non vi punga di mutar la pace

      Di quelle mura col rumor del mondo!

      Guai se una volta lacrimaste i tempi

      Non redituri! E se di spose e madri

      A quel tremendo ministerio eccelso

      Dio vi destina, di più forte gente

      Fate ricca la terra! Incliti amori

      E pietose virtuti al secol novo

      Date una volta; e la gentil fortezza

      Degli atti vostri avrà corone e canto.

      Ma fra quanta di rei turba infelice

      (ahi poche e stanche) i verginali capi

      Riposerete alla fiorita landa

      Voi, coraggiose martiri, venute

      La frale ad espïar anima d’Eva!

      E tu, mio Genio, pellegrin ti reca

      Sul precipite abisso. E quando ascolti

      Altre misere incaute approssimarsi,

      Alzati e grida col furor negli occhi

      D’Edmenegarda il nome. E se la turba

      Dall’impeto è travolta, allor dell’ali

      Fatti un velo alla fronte, e piangi e prega.

      Passan l’ore sull’uom, passano i giorni

      Che triste o lieto, irremutabil sempre,

      Numera il Sol. Ma le speranze, i sogni,

      Gli odii, gli amori, e l’incalzarsi eterno

      Delle memorie, e l’avvenir celato,

      E i durissimi tedii, e il faticoso

      Dibattersi dell’alma, e il trovar pace

      Dopo fieri cimenti, ahi tarda e breve

      E guerreggiata con orrenda gioia

      Da Satàna e dall’uom; questi misteri

      Non li numera il tempo. Anni ed istanti

      Con pari vol misurano. Nessuno

      Quei dell’altro indovina. Han vita e moto

      E sepoltura in noi; sin che lo strale

      Fischia della suprema ora nell’alto,

      Guizza il lampo di Dio sulle tenèbre…

      E quell’ambage non è più.

      Chi tenta,

      Poichè la rea fra le tradite braccia

      Tremò, chi tenta penetrar gli abissi

      Dell’anima sviata?… Ella sorride;

      Chiama, con voce più soave, il nome

      De’ suoi figli e d’Arrigo; e in una tinta

      Lieve di rosa s’incolora il lungo

      Pallor del volto. Più profonda è fatta

      La battaglia del cor, che nessun vede,

      Ma che improvvisa ad or ad or balena

      Da un sospir divorato e da una fredda

      Stilla di pianto.

      E Arrigo?… Egli si sforza

      D’esser lieto, e non può. Ben come un dolce

      Fantasma, che talor passa per l’ombre

      D’un sogno tormentoso, ei si dipinge

      La fè d’Edmenegarda; e l’accarezza

      Come il dormente quella bianca imago.

      Ma, quasi mesta del notturno gelo,

      Fugge la bella forma, e risepolto

      Nelle tenèbre il sognator sospira.

      «Perchè quest’ombra di sospetto a tergo

      M’incalza sempre?… Ma, se rea foss’ella,

      Come potrebbe sostener sol uno

      De’ baci miei, nè di rossor morirne?

      Avria sconvolto le sue leggi eterne

      La natura ed il ciel? Come in sì breve

      Ora mutar l’angelico costume?

      Io demente l’accuso; e chi sa quanto

      Ella si strugge, e se de’ miei s’accorse

      Dubbi codardi! Io vigilai già troppo,

      Nè mai l’aspetto di colui m’apparve,

      Nè ombroso un gesto, un moto io mai non vidi

      D’Edmenegarda mia, di quella mite

      Anima che talor si fea tremante

      D’un mover lieve di notturna foglia,

      D’un fior che le cadesse. Oh questa è colpa,

      È colpa in me, ch’io vo’ punir.»

      Siffatti

      Son d’Arrigo i pensieri. E cerca ovunque

      Disvïarne la mente.

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