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impera.»

      – «Il gaio mondo

      Vola a’ teatri. Edmenegarda, altero

      Fammi di te, tra tutte quante bella!

      Sentirai la virtù delle immortali

      Melodie di Rossini in bocca a questo

      Angelo ispano! Tutt’Europa ai canti

      Della Garcìa sospira.» —

      Allegra accolse

      E timida l’invito. Eran più giorni

      Che nol vedeva, consigliero a entrambi

      Il prudente timor. Forse tra’ mille

      Ritrovato coi destri occhi amorosi

      Quella sera l’avria.

      Quanta vaghezza

      D’abiti e forme! e che tesor si spande

      Di profumi e di luce, e che diffusa

      E terribile e mesta onda di note

      Per la bella Fenice!

      Inni di gloria,

      Canti d’amor, selvagge ire dal petto

      Fulmina Otello, e solitario cade

      Di Desdemona il pianto, e sotto i salci

      Freme l’arpa divina.

      Oh! chi non arde,

      Chi non gela a le lunghe e disperate

      Note d’amor, di gelosia, di morte?

      Suonano le commosse aure di grida;

      Palpita Arrigo; ed ella, in quei tumulti

      Soffocando il terror, giù nella folla

      Furtivamente il suo Leoni affisa,

      Che, chiuso in altre voluttà, non plaude,

      Ma profondo sospira.

      I canti estremi

      Lacerarono Arrigo; e quando Otello

      Con le sue mani furïose estinse

      Desdemona infelice, inorridito

      Pianse l’inglese e ricercò sul volto

      D’Edmenegarda una pietà segreta…

      Ed ella?… Indarno la chiedea dal cielo!

      Da molti giorni era composto in pace

      Il cor d’Arrigo; e carezzava i figli

      Festevolmente, e sulle sue ginocchia

      Se li togliea, facendoli amorosi

      Messaggieri di baci alla lor madre.

      E alfin, quel dubbio ad espïar, risolse

      Per qualche dì, con dilicato affetto,

      D’abbandonar la sua dolce compagna

      E le venete spiagge; anche a rapirsi

      Da quei duri pensieri.

      A voi più volte,

      O frïulane valli, inebrïato

      Tornava Arrigo col desio; che un’orma

      In voi trovar della natal sua terra

      Gli parea sempre; e il vostro aere cortese

      Gli custodiva il più soave arcano

      Degli anni suoi; però che sulle sponde

      Del Tagliamento un dì vide una mesta

      Giovinetta vagar pensosamente,

      Al mite raggio delle prime stelle

      E ai fioretti del margo acconsentendo

      Qualche sospiro; e dimandò chi fosse;

      E più d’ogni altro gli fu caro il nome

      D’Edmenegarda. E ancora una vaghezza

      Lo pungea di mirar quelle divelte

      Torri, che la solinga edera allaccia.

      Campo una volta a baronal fortuna,

      Or son nicchia notturna alle selvagge

      Volpi, e per gli atrî, ove suonâr le spade,

      Passa a staccar qualche frantume il vento,

      Mentre in alto la bruna aquila ondeggia,

      E il fulmineo serrando arco dell’ale,

      Precipita alla preda. A quei castelli

      Lambe le falde impäurito e passa

      Il vïandante, e i colpi della scure

      Sull’erma balza il legnaiuol sospende

      Ad or ad or: chè dentro alla solinga

      Magion de’ Savorgnani ode un feroce

      Ballo di morte, e lungo quelle sale

      Vede traverso i colorati vetri

      Passar rossi fantasimi, agitanti

      Fiaccole e spade.

      Anche il pensier d’Arrigo

      Dietro quelle sognate ombre correa.

      Poi riposando a fantasie gentili,

      Rammentava, o gagliarda Utino, l’opre

      Del tuo Giovanni, che attingea dai labbri

      Del divin Raffaello il benedetto

      Soffio dell’arte che d’amor si pasce,

      E cielo e terra, innamorando, crea.

      E del merlato Spilimbergo intorno

      Udìa sull’aura reverente i nomi

      Del Vecellio e d’Irene, ambo immortali.

      E là trovar tra i memori oliveti

      Già gli parea la giovenil sua vita,

      E di là, le marine onde solcando

      Pregustava nel cor la inaspettata

      Voluttà dei ritorni.

      E così volle,

      E a la sua cara ne parlò. Sostenne

      Edmenegarda, tra la gioia e il pianto,

      Quella battaglia: e ch’ei si rimanesse

      Tremava; eppur lo scongiurò di starsi;

      E gioì del rifiuto; e insiem rimorso

      Di quel gaudio sentì.

      Misera! il fato

      Già ti chiuse ogni via, tranne quell’una

      Che d’abisso in abisso ti sprofonda.

      Povera foglia alla bufera in preda!

      «– Dunque tu parti!… Anche per me saluta,

      Arrigo mio, quei colli, e le dilette

      Rive del Tagliamento, e quei beati

      Campi! ma lungo il tuo restar non sia!» —

      E di vera tristezza eran parole.

      – «Noi ci vedremo in pochi dì. Scrivetemi,

      Edmenegarda!»

      «Arrigo mio, m’è nuovo

      Questo tuo far. Perché nell’abbracciarmi

      Non mi chiami del tu? Tetra una nube

      Ti sta sul volto, nè stanotte il sonno

      Ti consolò. Che hai?»

      «Nulla, mia cara.

      Prendi cura di te, pensami e scrivi.

      Addio, fanciulli!» —

      Al sen tutti li strinse

      E si partìa. Ma la rinata spina

      Laceravagli il cor. S’era ingannato?…

      O quella notte Edmenegarda in sogno

      Proferse un nome?… E ancor, per quelle sale

      Passando, acuto un

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