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mia!»

      «Deh! più non dirne;

      Mi son pugnale avvelenato all’alma

      Le tue parole! Ei sì ancor mi ama Arrigo,

      Troppo umano e cortese a questa sua

      Miseranda colpevole!… Che fora,

      S’ei risapesse?… Oh mio Leoni!… Un serpe

      Mi rode il core!… Io lo disamo, io sola;

      E si tormenta il misero a vedermi

      Tramutata così!»

      Può far portenti

      La pietà nei gentili. Ed ella intensa

      La sentia per Arrigo. Arse Leoni

      In quel fiero sospetto: e sulle labbra

      Dal core offeso gli suonâr parole

      Sino allor non proferte.

      – «E cieca or tanto

      Fatta sei tu?… Veder ne lo potessi

      Sotto i vecchi palagi, com’io ‘l vidi,

      Passeggiar sorridendo! Egli divora

      Tutte degli occhi queste nostre donne,

      E, immemore di te, forse possiede

      Nel suo vil desiderio altre sembianze,

      Che un raggio, un’orma della tua non hanno».

      «– Leoni, è tempo di tacer!»

      «Non anco,

      Edmenegarda!… Lasciali i rimorsi

      A lui che vola a comperati amplessi,

      E svergogna cosí questo suo dono.

      Non meritato dal Signor!» —

      Le guancie

      D’Edmenegarda in una calda fiamma

      Si tramutâro.

      «Ascoltami, Leoni!

      Tu menti; è vano il dubitar; tu menti!

      Deh, così basso non cader! Non farmi

      Più pesante la colpa! Almen mi lascia

      Questa alterezza, che in vulgar persona

      Io non locai l’affetto. Intender tanto

      Non credea dal tuo labbro. Arrigo è fiero,

      Arrigo mio, più di quant’altri alberga

      La vostra Italia. Ei non sapria macchiarsi

      Di gelose menzogne. Egli, il mio sposo,

      Pria di mentir, morrebbe. Or via, mi guarda;

      Gli occhi ho pieni di lagrime!… Sei pago?»

      «– Edmenegarda!… Se le atroci ambasce,

      Che mi schiantano il cor le risentisse

      Una fragile donna, ella saria

      Sepolta già. Dissimular che giova?…

      Voi l’amate, l’amate!»

      «Oh così fosse!…

      Perchè trarmi dal core anche il rimorso?»

      «—No, Edmenegarda, non lo dir!… Ma vedi!…

      Vedi come per te cieco son fatto!

      Questa indomita febbre è la mia parte

      D’aria e di sole. Io morirei senz’essa.

      Credi, non sente amor chi lo divide!…

      Edmenegarda mia, vile io non sono!

      Questi crudi, che a voi povere e frali

      Insegnaron la colpa, e poi non sanno

      Sentir la gioia dell’avervi intere,

      Paghi d’un bacio che a sbramar li venga,

      Questi tutti son vili!» —

      Dallo sguardo

      D’Edmenegarda, ai concitati accenti,

      Lampeggiò l’allegrezza; e intorno al collo

      Gli ripose le braccia; e figli e sposo

      Svaniron lenti dalla sua memoria

      Sotto il vel dell’oblio, che il novo affetto

      Continuatamente iva tessendo

      Più fitto sempre.

      Ma sorrider lieta

      Già non sapeva.

      – «Oh mio Leoni! Infauste

      Giornate il cor mi presagisce. Ah sempre

      Amami, sempre com’io t’amo; e queste

      Parole mie non oblïar. La terra

      Mi tesserà dolori, avvilimenti;

      Io sarò forte a sostenerli. In core

      Mi languirà la prece, e disperata

      Io non cadrò. Se mi mancasse il pane,

      Non saliranno i miei lamenti a Dio;

      Me l’avrò meritato!… Ma, se mai

      Tu… mi lasciassi…»

      «Angiolo mio! Quai fole

      Per la mente ti passano? Sorridi,

      Edmenegarda. Or via; caccia dall’alma

      Queste vaghe paure!… E non ti basta

      L’amor mio tanto?…»

      «Oh sì, mi basta!… E vedi

      Ch’io son tranquilla. Ma tu pur, diletto,

      Non affannarmi; non voler ch’io tremi

      Dell’ire tue! Qual gloria indi n’avresti?…

      Che resta a noi, se non amarci?» —

      A queste

      Voci d’affetto sospirò Leoni

      Di profonda amarezza, ed esitando

      La man le porse, come con quell’atto

      Perdon le dimandasse dello averla

      Contristata così.

      Sul core afflitto

      Ella serrò la cara mano… e tacque!

      Molti dolori chi molto ama oblia!

      Sceso era già dall’orizzonte il sole

      E in grembo alle romite aure del loco

      Movea un suon di reconditi sospiri

      Rotti da qualche inebrïato accento.

      Ma quella sera sulle dolci mura

      Calâr tetri i crepuscoli; alle imposte

      Mugolarono i venti; e sembrò voce

      Quasi di pianto il mormorar de’ flutti.

      Anche l’addio delle tremanti bocche

      Alla forzata ilarità del volto

      Non rispose quel dì.

      Nelle fatali

      Soglie si nascondea la preparata

      Ira del Nume; un innocente bimbo.

      Il sottil laccio tra la siepe al falco

      Ghermisce il collo, e la invisibil goccia

      Colmo alle ripe l’Oceàn travolve.

      Per quelle sale con aerei passi

      Trasvolando Leoni, non s’avvide

      Del fanciulletto che di là per caso

      Passava. Urtollo; e il poverino a terra

      Giacque ferito nella bella fronte.

      Leoni come lampo gli si tolse

      Dagli occhi. Accorse alle dolenti strida

      La madre.

      – «Oh santa Vergine! Rispondi;

      Rispondi;

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