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quando acuta e fina

      Me ne ferì la spina,

      Ebbi alle piaghe i dìttami

      Talor della beltà.

      Povero pazzo! i memori

      Fogli sigilla e taci.

      Fatti allo specchio, e merita

      Sol della musa i baci.

      Così non dissi allora

      Che mi ridea l’aurora;

      Or che s’infosca il vespero,

      Comincio ad insavir.

      Ma intanto accuse e strepiti

      Mi si moveano intorno.

      Oh! fosse morto, al nascere,

      Della mia fama il giorno?

      Petrarchi e Tassi frusti,

      Caproni e bellimbusti

      Fêr sinagoga il despota

      Monello a maledir.

      Uno inventò le favole,

      Un altro le diffuse;

      Chi sporse il monosillabo,

      Chi pronto lo conchiuse,

      E dietro al dâlli! dâlli!

      Gl’insulsi pappagalli

      Sul trivio ancor cinguettano

      Le ree stupidità.

      Sino frugâr nel tumulo

      Dove tu dormi, Elisa,

      E ti compianser vittima

      Da’ miei tormenti uccisa;

      Sorgi dall’erma bara,

      Ombra sdegnata e cara;

      E del compianto ipocrita

      Possa arrossir chi ‘l fa.

      Tal m’apparì lo splendido

      Mio mondo. E il pan che fransi,

      Pan tossicato al lievito,

      Gittai per terra e piansi;

      E imprecai quasi al nume

      Che mi vestìa di piume,

      Onde agitarle in etere

      Livido e reo così.

      Poi mi riscossi. E l’anima

      Fatta matura e il piede,

      Ebbi dal duol più libere

      Note, più forte fede,

      E camminai. Le spalle

      Portâr la croce al calle,

      E il cireneo del Golgota

      Per me non apparì.

      Meglio. Chi pensa e spasima

      E non consente al duolo,

      Per nude pietre e triboli

      Dee camminar da solo.

      E camminai. Sul viso

      De’ manigoldi ho riso,

      E di più bei fantasimi

      Il cor mi scintillò.

      Addio, febei mirmidoni,

      Macre spennate piche,

      Addio, volanti retori

      Per forza di vesciche:

      Latrami contro, o grulla

      Prosopopea del nulla;

      Fuor di tua riga i cantici

      Erato mia pensò.

      Ruppe le sacre tenebre

      D’Antèla e Mantinea;

      Conobbe il sasso e i salici

      Di Leutra e di Platea;

      Del Simoenta al margo,

      Là sulla polve d’Argo,

      Sentii di Smirna l’angelo

      E per l’Egeo tuonar.

      Tu, musa mia, la cenere

      Del Ghibellin baciasti;

      Tu solitaria visiti

      La cameretta d’Asti,

      Vaga di freschi allori,

      Le antiche glorie onori,

      Pensi all’Italia, e vigili

      De’ padri miei l’altar.

      Lasci una vil politica,

      Rosa da tigne e tarpe,

      A chi la vende e compera,

      Come l’ebreo le ciarpe;

      E, in bassi ed alti scanni

      Fisando i tuoi tiranni,

      Ogni giustizia vendichi,

      Fai sacro ogni dolor.

      Chiuso nei polsi un rivolo

      Del sangue d’Alighiero,

      Armi di meste collere

      Il tuo civil pensiero,

      E, quando il dio ti spira

      Fra i nervi della lira,

      Tu squarci alla fatidica

      Delfo i silenzi ancor.

      Deh! non cader. Se un ebete

      Vulgo t’offende, oblia.

      Lanciò la fatua Solima

      Le pietre in Geremia,

      E la dardania prole

      Rise le illustri fole,

      Che pur carpia la vergine

      Cassandra all’avvenir.

      E fu Sionne un cumulo

      Di sassi e di vergogna;

      E sugli iliaci ruderi

      Sta il corvo e la cicogna.

      O musa, i fior, che a nembo

      Lasci cader dal grembo,

      Possan sull’atrio ai posteri,

      Non su macerie olir!

      E voi smettete il mugolo,

      Spadoni imbrattacarte,

      Ch’ella con veglie e lacrime

      Fe’ sua la fede e l’arte,

      E già da voi ghirlanda

      Non sogna e non dimanda,

      Perché di malve e d’alighe

      Non vuoi fregiarsi il crin.

      Canta; e cantando arridimi,

      Tu de’ miei dì sorella;

      Astro nel ciel; sul pelago

      Volante navicella;

      Al petto inerme e nudo

      Gentil lorica e scudo;

      Nome al mio nome; e lampana

      Sul mio sepolcro alfin.

      EDMENEGARDA

      CANTO PRIMO

      Per le vie più deserte, in doloroso

      Abito bruno e con un vel sugli occhi,

      Passa la bella Edmenegarda, – e al queto

      Lume degli astri si raccoglie in una

      Romita barca e con le sue memorie

      Vaga piangendo.

      Misero! che speri,

      Se ti percote Iddio? Non è già il mondo

      Grandemente pietoso. Egli al banchetto

      Della tua casa volentier si reca

      E ne sparge di rose i penetrali;

      Ma se il cupo dolor veglia alla porta,

      Non

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