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colà d’una progenie estinta.

      Eternamente le percote il vento,

      Eternamente le flagella il mare,

      A ricordar che su quel cener pesa

      La sentenza di Dio. Ma l’uom superbo

      Guai se calpesta quelle pietre e ride.

      Dopo l’ora mortal non ha la creta

      Verità di giudizio; e agonizzante

      Cristo pregò dalla sua croce a tutti

      Il perdono del Padre!

      Inculte rose,

      Pochi e pallidi gigli erano intorno

      A quei nudi sepolcri.

      Oh dilicata

      E arguta e forte cortesia di donna!

      Edmenegarda il piè dei fanciulletti

      Rimovea da quei fior seco pensando:

      «I figli miei non vi torranno, o meste

      Urne, l’unica gioia, onde si mostra

      Liberale alle stanche ossa la terra!»

      E sospirò come chi pensi al prezzo

      D’una cara pietà nei faticosi

      Dí del dolore.

      Un suo bimbo, seguendo

      Con trepido desío per quella costa

      Il vol d’una solinga farfalletta,

      In una zolla incespicò.

      Vi narro

      Comuni istorie: ma son questi i lievi

      Stami che annodan l’avvenir.

      Sorgiunse

      Tempestiva la madre e il vispolino

      Trepidando garrì. Ma in quelle strette

      Paurose dell’anima, non vide

      Che disciolto da’ polsi un vezzo d’oro

      Nelle morbide zolle era caduto.

      Con certo vago non curar dipinta

      Su vi splendea l’immagine d’Arrigo,

      Bruno, superbo, dispettoso e bello.

      Giorno e notte compagno ella si tenne

      Quel diletto ornamento! ed or tra l’erbe

      Miste d’un giglio egli smarrito giace

      Presso l’avel di giovinetta ebrea,

      Morta d’amore. Ricomposti alquanto

      I conturbati spiriti, s’accorse

      Edmenegarda della rea ventura,

      E ne tremò come di lungo affetto

      Che improvviso si rompa. E il suo fanciullo

      Riguardò corrucciata.

      – «Oh tu perdesti,

      Mamma, il tuo vezzo!»

      «E tu cagion ne sei.»

      «Si, veramente» (con voce di pianto

      Proruppe il bimbo).

      «Non turbarti, o caro:

      Il troverem. Ma voi vi trastullate

      Là su quell’erbe. Cercherollo io sola.

      Il buon Iddio già non vorrà che io peni

      Più lungamente». —

      Spensierati al gioco

      Obliarono tutto i due bambini.

      Edmenegarda con rotti sospiri

      E tormentosa avidità cercava.

      Avrìa gemuto ogni più scabro petto

      A contemplar quella dolce persona

      Di qua, di là gittarsi incertamente,

      Curva, carponi, e con le mani bianche

      Frugando in mezzo all’erbe e per le spine,

      E tra il vel delle lagrime le ardenti

      Pupille sulla terra affaticando.

      Non lontano da lei terribilmente

      Batteva un core a rimirar quegli atti.

      «Eccola! E indarno, indarno sempre il sogno

      Della mia vita io seguirò! Né un guardo,

      Né un sol guardo di lei questa profonda

      Febbre, che m’arde, acqueterà! Che spero?…

      Vedi iniqua fortuna? Ella ha smarrito

      Qualche sua dolce cosa, e gli affannati

      Occhi volge alla terra. Oggi soltanto

      Le son sì presso… e non mi vede! Oh sia

      Maledetta la cosa che a sè tira

      Le ostinate pupille e inganna il lungo

      Mio desiderio! Mordere le possa

      I bei diti una serpe, onde sollevi,

      Almen gemendo, quell’amato capo!

      Una volta, una volta ella mi veda

      Così scarnato e misero per lei!»

      In queste voci di dolor proruppe

      Il giovine Leoni.

      Era di casa

      Patrizia nato. Tra follie consunse

      L’età ridente. Nelle bische, ai balli

      Splendea su tutti e beffeggiava il casto

      Sospir dei fidi o non felici amanti.

      Ma nel viso gentil d’Edmenegarda

      Un dì scontrossi e ne tremò. Del suo

      Turbamento si rise, e non pertanto

      Anelò rivederla: e una cocente

      Torbida fiamma al fatuo cor s’accese.

      Da quell’ora solingo egli passeggia;

      Non più lieti convegni, orgie notturne,

      Riso e feste d’amici. Arde il leggiero

      Schernitor degli affetti; arde. La cerca,

      La perseguita ovunque, e se per caso

      Un lampo de’ suoi belli occhi rapisce,

      Gela ed avvampa di convulsa ebbrezza.

      A lui la notte, in pria fredda e deserta,

      Or tutta è un sogno del celeste viso,

      E il giorno un’acre voluttà superba

      Di ricomporlo nell’ardente idea.

      E come in quell’istante ogni movenza

      D’Edmenegarda, e le fuggenti trecce,

      E il fluttüar degli scomposti veli

      Ei divorava!

      – «Quanta cura!… Or dunque

      Smarrito ha il paradiso?»

      E anch’ei si pose

      Sdegnosamente a ricercar. Né appena

      L’orme e gli occhi per caso avea sospinti

      Presso l’avel della fanciulla ebrea,

      Che sotto al gioco dell’obliqua luce

      Un lampo uscì dalle non peste zolle,

      Il vezzo è già nella sua man. Vi scôrse

      Le sembianze d’Arrigo. A Edmenegarda

      Volò.

      – «Guardate!… Io lo trovai!… Guardate

      Aman tutti, – ed io solo, io senza amore

      Passerò dalla terra!»

      E nei convulsi

      Moti dell’ira il

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