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gli occhi; il mirò; di nessun’altra

      Cosa le calse; piangere l’intese…

      E a goccia a goccia come piombo ardente,

      Nei tumulti del core impäurito

      Sentí stillarsi quel terribil pianto.

      Ne gemettero gli angeli. Percossa

      Quell’infelice dall’orrendo caso,

      Si stringe a’ figli; ma sudor le gronda

      La chioma e il volto, e gelido è l’amplesso.

      Tenta pensar d’Arrigo; ma turbata

      Le traballa l’imagine alla mente;

      Tenta pregar; non puote. Intorno gli occhi

      Slancia tremando; li raccoglie ai figli.

      Gli apre, gli chiude, misera! non puote,

      E gli apre ancora avidamente e cerca…

      Chi?… Piangetene, o cieli!

      Consumata,

      Consumata nell’anima è la colpa.

      Ed ahi sí presto!

      Che misteri asconde

      Di dolor, di fortezza e di peccato

      Questa superba e lagrimabil creta!

      Tu pregherai, tu spererai, ma indarno.

      O Edmenegarda, il demone con molte

      Fatiche ha comperato la sua preda;

      Per anni molti ei la vorrà. Che importa

      Se tu ti slanci al tuo legno fuggendo?

      Che importa, se la bruna navicella

      Va come lampo, e pur gridi affannata

      Al remator che acceleri la corsa?

      Che val, se il tempo col desío divori?

      Tendi gli orecchi. Non ti fêre un novo

      Romor nell’acque? Volgiti! non odi?

      Come larva notturna, che persegue

      L’agitato pensier del viandante

      E gli fa tardo il passo, il respir greve,

      Or rotti or doppi i battiti del core,

      Presso il navil d’Edmenegarda un altro

      Venía solcando; e la medesim’onda,

      Che dall’uno, dall’altro era percossa.

      O Edmenegarda, volgiti! non odi?…

      Ahi, che duro pallor t’ha ricoperta!

      Che abbandono di sensi!

      I tuoi fanciulli

      Ti credono dormente, e si fan cenno,

      Ponendo il dito sulle rosee bocche,

      Di non turbarti quell’amabil sonno.

      CANTO SECONDO

      Sfiora le eccelse cupole, tra gli archi

      Vagola e trema sugli azzurri flutti

      Con la pietà d’un fuggitivo amante

      Il sol che muore: ed un suo raggio estremo,

      Ferendo i vetri alla romita stanza

      Posa sul crin d’Edmenegarda.

      Oh sole,

      No, non lasciarla. Anche su lei risplendi;

      È bella ancor questa colpevol fronte.

      Simigliante ad un naufrago, che manda

      L’ultimo grido, e vinta la persona,

      Le disperate mani incrocia al petto

      E piega il capo sotto l’onde e spira;

      Così la combattuta Edmenegarda

      Col suo dolce peccato ahi! s’addormenta.

      «Tutti son lungi; ed io qui sola il noto

      Rumor sospiro degli amati passi!

      E ancor non viene! Ei non dovria lasciarmi

      Il mio Leoni a questo tetro sogno.

      Non teme ei forse ch’io svegliar mi possa?

      Sì consumata nel fallir sarei?…

      Oh infame il giorno che mi fûr recate

      Queste note d’amore!!»

      E su dal seno

      Una lacera carta ella traendo,

      V’infisse i lumi; la baciò; la strinse

      Tra le palme e gemette.

      «Io ben rammento

      Che, appena l’ebbi, la gittai nel foco…

      Ma estinto il soffio del dimòn l’avea.

      Lungo era l’atto a lacerarla intera…

      Io nol potei!»

      Che sogna la demente?…

      Arsa l’avrebbe?… Ah, se stridea la fiamma

      Lí pronta a divorarla, indi ritorti

      Avrìa gli occhi la misera. E se un primo

      Impeto pur ve la traea, sparmiato

      Già non avrebbe le sue belle vesti

      E le man dilicate, onde salvarla

      Dalle subite vampe.

      Oh! qual periglio

      Può rattener la donna innamorata,

      Quando la punge quell’acuto immenso

      Empio patir?

      Deh, non parlar di queste

      Crëature sì fragili e possenti,

      Tu non nato ad intendere che il vile

      Gaudio d’averle e d’oblïarle sempre!

      «Duro è l’indugio. E ancor non vien!»

      Si desta

      Da lunge un’eco: Edmenegarda ascolta

      Avidamente; le si fan le gote

      Porpora viva… Il suo Leoni è giunto.

      «– Addio, diletta!»

      Ella si tacque; e un lungo

      Sospir traendo, con le molli braccia

      Gli cinse il collo e lo baciò.

      – «Divina

      Sei veramente! Durassero eterne

      Quest’ore! Stolto! io non credea che tanta

      In sé chiudesse voluttà la terra!…

      Dov’è sembianza che alla tua somigli?

      Chi non daria per queste chiome un regno,

      Per baciar mille volte, com’io faccio,

      Queste tue chiome, e a forza di baciarle

      Stemperarsi d’amor, com’io mi stempro?…

      Sì, Edmenegarda!… Piega la tua testa

      Qui sul mio cor!… Deh, senti come batte

      Un cor d’Italia… Ah, questi miei non sono,

      Non son gli amplessi del superbo Inglese…»

      «– Leoni mio, non proseguir!… Ti prego

      A mani giunte, non mi far morire!…

      Troppa è l’ebbrezza che nel cor mi versi;

      Ma per pietà non proferir quel nome!…

      Io non ho forza a sostenerlo!… Taci!…»

      «– Ei ti disama; non t’amò giammai.

      Co’ suoi gelidi modi ei ti contrista,

      Gentil rosa d’amor! Ben meritava

      D’aversi

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