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t’inganni; non è ver. Non deve

      Un bel fanciullo lagrimar. Se taci

      Se non parli ad alcuno, io ti prometto

      Che un bell’abito avrai, ma de’ più belli

      Che si veda in Venezia.» —

      Ed asciugando

      Il poco sangue del picciolo viso,

      Molte feste gli fece. Alle carezze

      Inusitate da gran tempo, e al gaio

      Promettere, il fanciul serenò gli occhi

      Subitamente; e non finìa la madre

      Di carezzarlo.

      Una crudel tempesta

      Da molti giorni si mescea frattanto

      Nell’anima d’Arrigo.

      Ove fuggito

      Era quel dolce, quell’amabil riso

      D’Edmenegarda sua? Perché sì mesto

      Il sonar della voce e sì frequente

      Lo scolorir del volto? onde quel vago

      Svïarsi de’ pensieri e quel profondo

      Compatir delle colpe?… e se festiva

      Talor si mostra, perché mai traluce

      Dalle note e dai gesti un doloroso

      Sforzo dell’alma? la cagion del fiero

      Mutamento qual era?…

      Ella altre volte

      D’Arrigo a canto procedea superba,

      L’ondeggiar delle vele e il varïato

      Gioco de’ raggi e il luccicar dell’acque

      Lietamente notando. Ai vaghi aspetti

      Era gelida adesso e di mirarli

      Rifuggìa quasi. Nel leggiadro core

      Altre volte un desio caldo la punse

      Di visitar le insigni opre dell’Arte

      In compagnia d’Arrigo; or da gran tempo

      Non vedea quelle sale; e senza cura

      Abbellìa la persona; e senza affetto

      Educava i suoi fiori.

      «In che le spiacqui?

      Talor diceasi Arrigo. E donde nasce

      Quel tormentoso infastidir di tutto?…

      Quei rotti sonni?… Quel tremar talvolta

      Nelle mie braccia?… Oh che?… Forse?…»

      E dal bruno

      Fronte gocciava qualche fredda stilla.

      Poi, ripensando alle celesti gioie

      Da Edmenegarda avute; e a quella tanta

      Vita d’amor pei figli; e a sè guardando

      Giovine e bello e da tanti anni amato

      Con timida allegrezza, ebbe vergogna

      Di dubitar.

      Né sì profondo infitta

      Gli restò come pria dentro al pensiero

      Una persecutrice ombra, che sempre,

      Con la sua dolce Edmenegarda uscendo,

      Su’ lor passi incontrava.

      – «Oh l’importuno!

      Che pretende costui?» proruppe un giorno

      Con la sua donna Arrigo.

      «E che?… Vorresti

      Impedirgli la via?» —

      Si ricambiaro

      Ambo un sorriso; e fu sì casto e pieno

      E confidente, che potea di mille

      Sospettose paure esser compenso.

      Ma quando acuta i visceri penètra

      La vipera del dubbio, ella consuma

      Fieramente la vita, e non è forza

      Ch’indi la tragga. Nel fervor dei prandi,

      Nella vicenda de’ convulsi giuochi,

      Tu crederai di seppellir quel mostro;

      Ma sorgerà. Nelle sonanti corse,

      Tra i tumulti del dì, nella notturna

      Melodia d’un’angelica canzone

      Che di tepido oblìo l’anima incanta,

      Tu crederai di seppellir quel mostro;

      Ma sorgerà. Né sull’altar di Dio,

      Dove si placa ogni tempesta umana,

      La prece e il pianto t’usciranno in pace.

      – «Vieni, Adolfetto mio: dolce è la sera;

      Vieni a San Marco. Vi vedrai di molti

      Vispi fanciulli. Tu sta’ ritto e bello.

      Fa’ loro invidia».

      Vezzeggiando al padre,

      Battè palma con palma il fanciulletto

      Tutto contento, ed abbellir si fece.

      Nero il turbante, come neve il collo,

      Ceruli i guardi, cerula la veste,

      Biondi i capelli, inanellati e lieve

      Per l’omero scorrenti, era Adolfetto

      Un angelico incanto. E parea nato

      Quel soave fanciullo a render miti

      Con la tanta bellezza anche le fiere.

      – Sei pur vaga, o Venezia, e lungamente

      Memorabile e cara alle pietose

      Fantasie del mio cor! Chi porta gli occhi

      La prima volta sull’eterne torri

      Del tuo San Marco e non sospira, è degno

      D’assiderarsi alle perpetue brume

      Del Boristene. Chi trascorrer lascia

      Le gentili tue donne e non si sente

      Rapito all’aria de’ leggiadri aspetti,

      Non merta mai bacio d’amante. E quando

      Al grazïoso favellar festivo

      Non esilara il cor, l’ultima Islanda

      Io ben dirò che gli fu madre.

      Al cupo

      Tempestar della mente e agli odii ingrati

      Della terra natale, e a qualche arcano

      E tremendo peccato, in queste tue

      Ospiti rive, dopo lunga guerra,

      Trovò riposo un esule; e talvolta

      Brillò la gioia ne’ fulminei sguardi

      Del poeta d’Aroldo.

      Alle solinghe

      Ore di quella travïata i canti

      Del poeta d’Aroldo eran compagni.

      E quella sera le correan a forza

      La mente e gli occhi sui dolenti casi

      Di Parisina. Alla fatal lettura,

      Ecco repente tramortir la lampa,

      Stridere i vetri: ella riapre e chiude

      Più volte il libro, e pallida, d’intorno

      Sguardando, le parea dalla oscillante

      Parete lampeggiar l’ombra del duca.

      Popolata è la piazza, e sotto il doppio

      Ordin degli archi in allegria passeggia

      La varia gente. Assiso era col

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