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io.»

      Ma, ad ogni passo

      Verso la ripa, una gelata mano

      Sentia calar sul divampante petto,

      A respingerlo addietro. Egli räuna

      Ogni sua forza, quell’incubo orrendo

      Per debellar. Nè vinta era la pugna.

      «Tornarmen’io?… Pormi in agguato?… All’arti

      Del sospetto discendere?… Follia!

      Ma inumano è lo strazio. E in un dì solo

      Io quest’inferno dissipar potrei.

      Tanto è ch’io peno! E in un sol dì la vita

      Potrei mutarmi in paradiso eterno!»

      Lieve una piuma a traboccar bastava

      Quella bilancia, e non tardò la sorte

      A gittarvela su.

      Già il piè d’Arrigo

      Monta la prora; già la corda è sciolta;

      Ei volse il capo… e fu per caso; e sopra

      La man passovvi; e vide… e non s’illuse…

      Vide colui, che con pupille ardenti

      Lunge, in agguato, a contemplar lo stava.

      Leoni sparve. Arrigo si raccolse

      Un istante: ha risolto. A terra scese;

      La via rifece; per ignota parte

      Entrò; salì non visto: in una stanza

      Orba di lume si celò; la fronte,

      Quasi per molto faticar, gli cadde

      Sull’ansio petto; e un’onda di pensieri

      Lunghi ostinati gli muggìa d’intorno.

      Immenso amor, vergogna, ira, sospetti,

      E terrori e speranze, eran commiste

      Quasi in un vario e vorticoso nembo

      Di tenèbra e di luce; e dentro a quella

      Tempestosa meteora – spïando —

      Stava l’inglese all’infernal tortura

      Ogni piè, che sonasse alle sue scale,

      Gli era un colpo nel petto; ogni persona

      Che arrivasse, una morte. E in pochi istanti

      Ore ed ore passarono. Arrossiva

      Già di sé l’infelice… allor che un’ombra

      Rapida intese. Ei trema; la pedata

      Si ferma all’uscio; e l’uscio s’apre; ei guarda,

      Misero! guarda; e vede un’ombra… un uomo…

      Vede Leoni trapassar!

      Le fibre,

      Le vene, l’ossa gli divampan tutte.

      Ma sbarrata e di vetro è la pupilla;

      Cadaverico il volto; e sol la vita

      Da un tremor lieve delle labbra appare.

      Inchiodato così stette un istante

      Indi sorrise; e due gelate stille

      Dagli occhi morti gli colar sul petto.

      Stette ancora un istante. Alfin si mosse

      Quel pallido fantasma; ad ineguali

      Passi arrivò sulla tradita soglia;

      E l’aperse – e li vide – e d’uno sguardo

      Li fulminò. – Poi chiuse.

      Annichiliti,

      Trascolorati, come fredde pietre

      Restäro entrambi. Edmenegarda tenta

      Trar dalla gola un solo accento; è indarno.

      E, a forza sollevando la convulsa

      Testa, gli accenna di partir. Leoni

      La man ghiacciata le serrò.

      «Congiunti,

      Donna, per sempre!…»

      E a proseguir non valse:

      E, sovra il gel delle livide labbra

      Non baciato baciandola, col capo

      Vertiginoso, a strascico le membra

      Disviluppando, di colà si tolse.

      Arrigo il vide ripassar. Fu un punto,

      Ch’ei non pose sovr’esso l’omicida

      Mano a strozzarlo. Ma, serrati i denti

      E incrociate le braccia, ei si contenne.

      E quando il seppe dileguato, un cupo

      Urlo mandò qual di ferito tigre;

      E sull’infame limitar, di nuovo

      Ritto, immobile, apparve.

      La tapina

      Nol vide già: chè le cadea la fronte,

      Quasi con peso d’agonia, sul petto.

      Ma pur – senza vederlo – a sè davanti

      Lo sentia, lo sentia, muto e tremendo.

      E si sforzò di sollevar le braccia,

      E congiunte le palme, senza pianto,

      Senza parola, verso lui le stese.

      «Non pregate, o signora. Ospite io v’ebbi

      Sett’anni; or basta. Ad altre mense, ad altri

      Talami andrete.»

      Uscir quelle parole

      Fulgoreggiando. Traboccò riversa

      Edmenegarda, e una schiumosa riga

      Mista di sangue sui guanciali apparve.

      Un urto!… un urto ancora… e a terminarla

      Sarìa bastato.

      Ma il Signor non volle!

      CANTO QUARTO

      Vedesti mai della Città fatata

      Sulle sponde amorose, ove s’innalza

      Perpetuo il canto tra l’oceano e il Sole,

      Vedesti mai le lucide sembianze

      D’un’angelica forma ir diffondendo

      Fascini arcani, e dietro lei confusi

      Mille cuori agitarsi, e in rapimento

      Scintillar mille sguardi, a cui dinanzi

      Ella verrà nei sorridenti sogni?

      Mai non vedesti una leggiadra donna

      Col suo dolce compagno irsene altera,

      E preceduta da due biondi figli,

      Qual da una coppia di nascenti rose?

      E non ti parver quelle anime amiche

      Irradïate da un medesmo affetto

      Quattro corde sonanti e risonanti

      Sotto il ciel che le ascolta e s’innamora?

      Qual core è mai che non esulti a queste

      Melodie, che morir su le perdute

      Soglie del paradiso, e a far men triste

      La fulminata razza, un giorno ancora

      Sotto le dita dell’Amor son vive?

      Le sollecite madri alle fanciulle

      Quella donna additavano, esclamando:

      – Beate voi, se avrete una, sol una

      Parte dei giorni avventurati! —

      Oh certo,

      Senza molto indagar, tu la vedesti

      La

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