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lungo il mare vagolar solinga;

      Tu la vedesti; e la più cara stella

      Del felice Adriatico ti parve.

      Or leva gli occhi all’ultima finestra

      Di quel palagio, a cui lambe la luce

      Le fondamenta brune, e, digradando

      Via digradando, sul canal si perde.

      Quel palagio il conosci? – È di Leoni. —

      Conosci or tu quella femminea forma

      Col crin dimesso, con le mani scarne,

      Con la febbre nel cor, con le pupille

      Macchinalmente immobili sull’acque?

      Ahi! come poco ella ti par diversa

      Dalla gelida pietra a cui s’appoggia!

      Sol l’ignominia d’un ripudio puote

      L’umano aspetto tramutar cotanto.

      Invan tu cerchi nella tua memoria

      Di quella donna indizio. E se una traccia

      Lontan, lontano al tuo pensier balena,

      È un lieve sogno qual di cosa morta

      Da lunghissimo tempo, a cui tornando,

      L’anima tenta di rifarne intera

      La somiglianza – e più e più s’attrista.

      Or, l’hai trovata?…

      Quel crollar del capo,

      Quel doloroso tuo lungo sospiro

      Mi rispondon che sì.

      – Quanta pietade

      Sentirà dell’afflitta anima il mondo! —

      Oh nol pensar!

      Questo rettile abbietto

      Non ha voci per piangere. Egli manda

      Sull’infelice il suo grido di scherno,

      E lo dispera col livor dei morsi,

      E nell’ora del mal fischia di gioia.

      Così, quando scoppiò l’orrido nembo

      Sul fragil capo alla reietta, i labbri

      Verecondi di mille, a cui non note

      Son le vie del peccato, amaramente

      Fecero il ghigno; e da quei labbri il nome

      D’Edmenegarda si gittò nei crocchi,

      Senza vergogna; e fu divelto a brani

      Con maligna pietà dalle opulente

      Peccatrici, che menano a trionfo

      La tolleranza del codardo sposo.

      E se qualche pudica anima ai casi

      Sospirò miserata, ebbe il dileggio;

      E fin si diede a quel gentil compianto,

      Con demente rigor, la scellerata

      Nominanza di colpa!

      Ed or che il nappo

      Ella finì sino alla feccia, il mondo,

      Pietoso o stanco, l’obliò!…

      – Che importa,

      Se precipita un’alma e senza madre

      Gemon due figli e pesa il vitupero

      Dove rise la gioia? Ordine è questo

      Di natura e dei fati! —

      Or esce appena

      Qualche rea celia, a ricordar la nuova

      Ospite di Leoni.

      Egli da canto

      Caramente le siede:

      «– Alza la fronte,

      Ti consola, amor mio! Su quel feroce

      Si scagliarono tutti. E se anco l’ira

      Ti ferisse de’ tristi, io la divido

      Con te, dolce amor mio! Tu la mia vita,

      Tu la mia gioia; tu di me possiedi

      Il giocondo avvenir. Come esser puote

      Se non giocondo?… Che ci cal di questa

      Così ampia terra? Anco in angusto asilo

      Amor compone il paradiso!… Io tanto

      T’amerò e tanto, che potrai, (lo spero!)

      Dimenticare il doloroso sogno

      Del tuo passato!…»

      «Oh! mio Leoni…»

      «Arresta —

      Non turbarti, non piangere!… E se d’uopo

      N’hai veramente, non badarmi; e piega

      Qui la tua testa, poveretta, e piangi!…

      Merto ben io che mi trafigga il dardo

      De’ tuoi dolori!!» —

      Edmenegarda il capo

      Riscosse alquanto, e con più lunga stretta

      Serrò Leoni tra le braccia:

      – «Amico!…

      Vedi se i giorni del patir son giunti!…

      Io tel diceva!… Ma tu sempre meco

      Resterai, non è ver?… Tu questa mia

      Misera vita non vorrai coperta

      Di più dure vergogne. Io farò forza

      Per oblïar; per non ti dar mai segno

      Che ti contristi!… Ma se tu mi vedi

      Sospirar qualche volta… oh! non dolerti,

      Te ne prego a man giunte… Io già non penso

      Che a’ miei poveri figli!…»

      «Angelo amato!

      Perchè dirmi così?… Pria che una sola

      Lieve pena costarti, io mille volte

      Vorrei morir!… Ma tu… mi amerai sempre?»

      «– Sin che il cor batterà. Deh così presto

      Questa febbre mortal non mi consumi!»

      «– Sei ben crudele, Edmenegarda!»

      «Oh ridi,

      Leoni mio. Ma… così piena ho l’alma

      Di tanti sogni! Ed un di loro è bello;

      E mi par che s’avveri; e già lo sento

      Nell’esser teco!»

      «E lo sarai, diletta

      Compagna mia, nel dì dell’allegrezza,

      Lo sarai nel dolor!…»

      «Taci! Assopite

      Reminiscenze tu nel cor mi desti.

      Non sono ancor molto lontani i tempi,

      Ch’ei così mi parlava!…»

      «Or via, se m’ami,

      Tu dèi lo spirto allontanar da queste

      Sconsolate memorie. Odi la brezza

      Che via pei flutti vagolando spira?…

      Vieni a goderla.»

      «Il tuo voler m’è caro,

      Caro più d’ogni ben che un dì mi avesse

      Potuto dar la terra!» —

      E lungamente

      Favellaron coi baci, entro la bruna

      Lor navicella errando.

      In quella sera

      Fu giocondo spettacolo a vedersi

      Agili gondolette, una sull’altra

      Scivolanti

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