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pianure e torrenti. Alto un tripudio

      Di cacce e prandi; libera una pompa

      Alle danze, alle corse; e in quella vita,

      Che parea venturosa, il verme arcano

      A corroderla sempre. Uno spavento

      Fea trabalzar sulle agitate piume

      La sognatrice; ma durava il sogno,

      Che del futuro le squarciò il velame.

      E sotto al raggio d’un fanal notturno,

      Cinto di bari, in una cava oscura,

      Scoperse un uomo (e le parea Leoni)

      Gittar convulso l’ultima moneta

      Sopra una carta; e stringere le pugna,

      Bianco dall’ira; e bestemmiar la sorte

      E giurar contro Dio.

      Mise ella un grido,

      Ma non seppe destarsi. E quella stanza

      Maledetta fuggìa. Ma un’ampia landa

      Le si pose davanti; e misurarla

      Vedea quell’uomo a giganteschi passi,

      E lunge lunge, oltre i morenti lembi,

      Onde si distendeano, onde ed altre onde,

      Senza riposo. E una raminga prora,

      Come penna di corvo entro alle nebbie,

      In quelle vaporose indefinite

      Lontananze del mar si disperdea.

      Trambasciata, sudante, ella si scosse.

      Aperse gli occhi, le rivenne il senso;

      Sul cor tremante delle viste cose

      Ne passaron mill’altre; un gel la strinse;

      E disperatamente, tra le coltri

      Chiusa la testa, più pensier non ebbe.

      Taciti e soli, sul venir dell’alba,

      Mosser dai campi alle natie lagune.

      Rifecer quelle vie senza parola;

      Risolcaron quell’acque.

      Egual rimasta

      Era la terra. Eguale il mar. Partiti

      Eran col riso dell’april; col riso

      Dell’april ritornavano. Ma il core?

      Ah! sui campi del core a disertarli

      Era passato il vento della morte.

      Quel riveder, risalutar gli alberghi

      Consci di tante voluttà segrete,

      Ben fu com’aura, che vagasse intorno,

      Cercando i fiori dell’eliso antico.

      Ma non trovò che nude alighe e pruni,

      E dileguò, gemendo.

      Alfin dei tempi

      Destinati da Dio l’ora è suonata.

      Leoni ha risoluto. Aspre le pugne,

      Fieri i tumulti, amaramente mista

      La vergogna al dolor, morto il passato,

      L’avvenir senza speme, e messi in fondo

      Il nome e la fortuna, ha risoluto.

      Strascinerà vituperato i giorni,

      Sotto altro ciel.

      Più volte quel codardo

      Meditò di morir. Ma amor lo vinse

      Della misera creta ond’era cinto,

      Non terror del misfatto; e ruppe il ferro.

      Non fugge infamia. Dell’infamia il nome

      Sol può mutar.

      «La stolta ira del mondo

      Mi percota. Che importa?… Non è campo

      Tra noi per misurarci. Ahi! la perduta

      Giovinezza del cor! Questa è la spada

      Che ferisce profondo. E i lieti giorni

      Non potran più rinascere… Ed io solo

      Fui, che li uccisi!… Ed altre vite, ed altri

      Estinti amori: e lacerato il nodo

      D’anime mansuete… e la materna

      Felicità d’un angelo!… Ah, la morte,

      Ch’io non so darmi, saria pur pietosa,

      Se mi venisse a liberar da queste

      Dure battaglie! Ancor quest’oggi il pane…

      Ancor quest’oggi. E poi?… No, no. Sull’onde

      Getterò la mia vita. Io più non voglio

      Ascoltar quella voce. È orrenda cosa

      Ascoltar la sua voce! Oh le tempeste

      Inghiottir mi potessero!… L’Eterno

      Benedirei. Leoni! anco un istante,

      E poi… lunge per sempre.»

      Era soletta

      Su un veron del palagio Edmenegarda

      Co’ suoi mille pensier; torbidi, incerti,

      Rapidi, intensi, paventosi, amari;

      E, tra quelli, un occulto, un ostinato

      Presentimento… ma di tal sventura,

      Che nome non avea nella sua mente,

      E già stavale in cor.

      «Dio degli afflitti!

      Non sia ver, non sia ver!»

      Morta la luce

      Era d’intorno. Ribattevan l’ore

      Dalle squille notturne. Ella un acuto

      Strido mandò – ché un rumor lieve intese;

      E lieve un bacio le sfiorò le chiome.

      Vede un’ombra; poi nulla. Intorno getta

      Gli occhi smarriti; nulla. A fievol voce

      Chiama Leoni; ma nessun risponde.

      Era sogno?… Nol sa. Vero?… Ella sente

      Sul capo ancora il gel di quelle labbra

      Che la baciaro. In sé tutta si stringe

      Impäurita; un orrido deserto

      Par che la cinga… e il cor le si discioglie,

      A groppo a groppo, in un dirotto pianto.

      Quante cose in quel punto ella si disse!

      Quante più ne pensò! Non è linguaggio,

      Non è forma o color che le dipinga.

      S’incrociano; si sciolgono; van ratte;

      Rivengono più ratte entro la mente

      Disperata e confusa; e, in geli e vampe

      Tramutandosi, assalgono gli abissi

      Miserandi dell’alma, ove al fin regna

      In solitaria e paurosa notte

      L’insensato dolor. Fûr pochi istanti;

      Ma tremendi, ineffabili, nascosi

      A umana idea. Traverso a quello spirto

      Errava ancora un negro insuperabile

      Turbine di memorie, e di pensieri.

      Poi languiron le forze della vita;

      E sui guanciali in un sopor profondo

      Piombò.

      Da quel sopor chi ne la desta?

      Chi la riscote? – Non è lui. – Lo guarda…

      Ma non è lui. Si risovvien di tutto.

      Quegli

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