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infelice,

      Questo bene supremo. Ogni vivente

      Ch’oggi stolto scendesse a contristarti,

      Senza misura irriterìa l’Eterno. —

      E là, dinanzi al più remoto altare,

      Non turbata pregò; pregò pei figli,

      Per Arrigo, per sé, per quel ramingo

      Ch’era lunge, per tutti; e non potendo

      Quel ramingo scordar, chiedea dal cielo

      Che gli dèsse fortuna; indi pentita,

      Il periglio sentia di quella prece;

      E pensando ad Arrigo, in sé chiudendo

      Qualche rancor pel rifiutato pane,

      Non finiva di piangere – e col pianto

      Dimandava che Dio le perdonasse.

      Indi, tornata alle deserte case,

      Trovò dell’oro. Il generoso ignoto,

      Arrossendo, conobbe.

      «Or dunque estinta

      Son io per lui, senza riparo?… Estinta

      Sarò per tutti.»

      Ma venìa frequente

      Quell’amor tenebroso a conturbarla,

      E pensava al lontano – e aver novelle

      Pregava sempre – e sempre era delusa.

      Più sperar non volea; dopo un istante

      Ritornava a sperar.

      – Misera! acqueta

      La tormentata anima tua; da lui,

      Se ti è concesso, ogni pensier distogli.

      Amor che nasce e si matura in colpa,

      Che col rimorso e col terror s’annoda,

      Senza voto né legge, infausto fiore

      Lungamente non dura. Aprir le foglie

      Alla vampa del sol, chiuderle ai baci

      Rugiadosi dell’alba, abbandonarle

      Non vigilate ai venti – ed una sera

      Inchinarsi e morire, ecco la sorte

      Di quell’infausto fiore.

      Egli – il cui nome

      T’è rimprovero al cor – d’ogni allegrezza

      Essiccate ha le fonti, e intensi amori

      Più custodir non puote. Egli oggi obblia

      Quel che ieri adorava, ed oggi adora

      Quel che domani obblïerà.

      Malvagia

      E steril landa è di costor la vita.

      Solitari la passano; e l’estrema

      Necessità di morte li sorprende

      Nudi d’affetto; e non han figli, o sposa,

      Non un caro superstite, che doni

      Lagrimando alle fredde ossa una croce!

      Edmenegarda umilïar la fronte

      Tra le genti non seppe. E se talvolta

      Qualche compagna dei giocondi tempi

      Spïò da lunge, in altra parte mosse

      Delicata e superba.

      Uscian le turbe

      Agli allegri tumulti? – Ella nell’orto

      Restava, ore con ore, contemplando

      Una vïola del pensier, diletto

      Fiorellin ad Arrigo. O di feroci

      Note di sdegno o d’armonie d’amore

      Sonavano i teatri? – Ella con mesta

      Voce sommessa modulava un canto,

      Che ad altri tempi in calda estasi Arrigo,

      Arrigo suo rapì. Poi quando i raggi

      Languian nell’occidente, e qualche stella

      Scintillava nel ciel, sulla solinga

      Finestretta venia guardando al mare;

      Perchè ogni sera alla medesim’ora

      Una barca radea l’eremo lido,

      Non a’ suoi dolorosi occhi straniera.

      Ella da lunge la vedea sull’acque

      Avvicinarsi; le tremava il core;

      Le rivolgea qualche romito accento;

      La seguìa sospirando; insin che il breve

      Suo fanaletto si perdea tra l’ombre.

      Un dì, scendendo a visitar nell’orto

      Quella vïola del pensier… curvata

      Sul tenue gambo e pallida la vide

      Presso a esalare i moribondi incensi

      Nell’etere materno. Anche quel caro

      Memore fior languiva! Al vedovato

      Vasellino lo tolse, in cor pensando

      Di lasciarlo cader sull’aspettata

      Navicella fuggente.

      «Oh tu, pietoso

      Messaggio almen, sulla corolla estinta

      Recherai loro questi caldi baci!»

      Aspettando ella sta. Che roseo sogno

      Le si dipinge nel pensier! – Non sempre

      Volgon dure le sorti, e il duolo in parte

      Fu riscatto alle colpe, e la memoria

      Di quel lontan si discolora e passa.

      Chi sa che un giorno la pietà non parli

      All’anima d’Arrigo, ed ei non voglia

      Dimenticar, – e le rïapra il seno,

      E monda dalle lacrime la chiami

      Novellamente sua! Dio che perdona

      Più che l’uom non fallisca, eternamente

      Lascerà l’odio nella sua fattura?

      Aspettando ella sta. L’acume intende

      Delle pupille ad esplorar le vaghe

      Lontananze; non ode urto di remo.

      L’ora è trascorsa; ancor silenzio. Addoppia

      Gli occhi e l’udito; e il navicel non giunge.

      Ahi! la viola del pensier, funesto

      Vaticinio è di mali.

      Una pedata

      Ode; si volge; un sigillato foglio

      Le si reca; lo guarda, impallidisce;

      La man d’Arrigo lo vergò; tremante

      L’apre e vi legge… (Misera! dagli occhi

      Quante lacrime ancor ti gronderanno!)

      «Edmenegarda! I tuoi miseri falli

      Rimetta Iddio! Ma non sperar parole

      Di perdono da me. Tu mi rapisti

      Tutte le gioie; maledir m’hai fatto

      Questa tua bella Italia, ov’io sperava

      Viver lieto e morir; privi di madre

      Tu rendesti i miei figli. Alla natale

      Inghilterra io mi reco a seppellirvi

      Il dolor, se m’è dato; e pensa come

      Lieta avrò l’alma nell’udir taluno

      Che di te mi dimandi. Ahi! sarà duro

      Il dover dirgli: La mia donna è morta. —

      E

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