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sapea da gran tempo. Or via: parole,

      Non sospiri; parole vi dimando!

      Non mi fate morir!…»

      «Egli vi lascia

      Per mia bocca un addio. Di perdonargli

      I patiti dolori ei vi scongiura;

      E così solo e povero… veleggia

      Verso la Francia!»

      La misera donna

      Soffocò un urlo; e rassegnata al cielo

      Alzò le mani, e non avea parole

      Altre che queste:

      «Il meritai! Doveva

      Esser così. Sotto il giudicio vostro

      Io m’inchino, o Signor. Contro vi venni,

      Mal nata polve, e voi saliste in ira

      E m’avete percossa…

      Il meritai!»

      CANTO QUINTO

      Deh, venitemi intorno, estri gentili

      Della terra del Sol, dalle gioconde

      Belle odalische, voluttà promessa

      Del paradiso; e freman le ricurve

      Arpe, miste al romor delle fontane

      Correnti in letto di corallo e perle;

      E della mesta Rosellana al canto

      Dall’ardue torri lo stambùl risponda,

      Mentre scherzano i silfi entro al fogliame

      Delle mistiche palme, e i flessüosi

      Giovinetti rosai dell’Ellesponto

      Levano un nembo di celesti odori!

      Deh, venitemi intorno, innamorate

      Fantasie di quei cieli, a consolarmi

      La mente e il carme, per sì lungo pondo

      Di dolor contristati!

      Io così prego,

      Ma renitenti alle invocate gioie

      Non rispondon le corde, e dalla triste

      Anima il vivo imaginar dilegua.

      Alla fuggente prora apresi il mare.

      Così fuggisser le memorie infami

      Che lasciasti o Leoni, avvinte al lido!

      Altri, cui tocca la pietà profonda

      Della misera donna, a te daranno

      Di tristissimo il nome; altri, cui l’uso

      D’abbandonar necessità crudele

      Fe’ parer l’abbandono, un motto appena

      Sibileran dai labbri, e sarà incerto

      Se sia pietate o scherno, o indifferente

      Rumor di voce che col vento passa:

      Pochi dal cor sospireran tacendo,

      Pochi tremanti della propria polve,

      Che il giudicio dell’uom lasciano a Dio.

      Quando si seppe di quel novo caso,

      Misto a vili racconti, onde sul capo

      D’Edmenegarda ripiombâr gli oltraggi,

      In ferite s’aperse, e grondò sangue

      L’anima altera, affettüosa e degna

      Di quel misero Arrigo.

      Egli tradito,

      Privo per lei delle più sante gioie

      Che dispensa la vita, accompagnato

      Da perenni vergogne, egli l’amava…

      Ancor l’amava! Era la sua fanciulla,

      Vista sì bella sulle consce rive

      Del Tagliamento; era la dolce amica

      Del segreto suo talamo; la madre

      Di quei due fanciulletti, ultimo bene

      Ch’egli avesse nel mondo; or così sola,

      Così deserta, e misera, e percossa

      Dalla terra e da Dio!…

      Battea d’acerba

      Gioia e d’orrido affanno il cor d’Arrigo

      Confusamente, e prorompea;

      «Son giunti

      Questi giorni una volta! Edmenegarda,

      Li volesti; e son giunti; e non è dritto

      Che nessun te li tolga. Il lutto e l’onta

      Nella mia casa hai seminato; or cogli,

      Cogli, ché è tuo, di quella dura pianta

      Il durissimo frutto. Oh pienamente

      Vendicato son io; ma troppo, ahi! costa

      Quest’amara vendetta. E chi sa come,

      Come, adesso, ai fuggiti anni ella pensa!

      Quante lacrime sparge; ed una mano

      Non aver che le terga, ed una voce

      Non udir che la chiami e la consoli!

      Povera infortunata!… Io, che dovrei

      Maledirti, oblïarti, io sento il peso

      De’ tuoi dolori, io solo! Oh questo pianto,

      Che frenai da gran tempo, uopo è che scorra.

      Così bastasse!»

      E in furïosi e torvi

      Pensamenti quel suo spirito errava

      Dietro al vil fuggitivo; ed arrivarlo

      Avria voluto, e dirgli: Hai lacerato

      La vita mia; quel vago fior m’hai tolto,

      L’hai lasciato languir – perfido! – rendi

      Conto col sangue.

      E l’aspre alle dolenti

      Cose mescendo, rasciugava gli occhi,

      Che tornavan per forza a inumidirsi,

      E divorava i fremiti, e in disparte

      Torceva il capo. E que’ suoi due angioletti,

      Quasi con senso di pietà celeste,

      Senza parole, gli piangean da lato.

      Ma una più tetra e desolata stanza,

      E ben diversa dal palagio antico,

      D’ombre s’avvolge, e da quell’ombre un cupo

      Gemito insorge, e in una febbre ardente

      Trangoscia un core che morir non puote.

      E tra due mani discarnate e stanche

      Langue il lavoro, sovra cui s’incurva

      La debil vita a guadagnarsi il pane.

      O Edmenegarda in così verde etade,

      Ormai per te sì miserabil fatta,

      Che la stessa Pietà non ha più accento

      Per consolarti! Orribili pensieri

      Ti si volgono in mente, e a quando a quando

      Incapace ti senti a soggiogarli:

      Sì turbinosi assalgono.

      Infelice!

      Da quell’orlo sacrilego rimovi

      Gli ammalïati sguardi. All’acre punta

      Di quel pugnal non accostarti. Il nappo,

      Che cercavi di mescere, percoti

      Alla parete; ché dei tanti falli

      Sepolcro infame una viltà non sia.

      Ed

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