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nube fuggevole, quel moto

      Misterioso, che la fea per forza,

      Tornar crucciata sui passati tempi.

      Indi l’acre piacer dell’adornarsi

      Le rïassalse il cor.

      Donna, per quanto

      Scaduta sia dalla sua bella altezza,

      Anco nell’onda di cocenti affetti,

      Serba sempre un amor per la sua veste.

      Fors’è quel senso di pudico orgoglio,

      Che le insegna onorar la più gentile

      Delle create cose.

      Il desir novo

      Indovinò Leoni; e benedette

      Fur le ricchezze dal felice amante.

      E ondosi drappi e gonne agili e bianche,

      Come piuma di cigno, e argentei veli

      E malinesi e batavi trapunti,

      E lane arabe e perse, e nastri e gemme,

      A ornar le trecce d’ebano e i nitenti

      Omeri e il collo e le nudate braccia,

      Tutto, qual per incanto, a sé davanti

      Vide la bella fata; e il cor di donna

      Con precipiti palpiti battea.

      Ma non molto durò; chè come piombo

      Le pesâr quelle vesti, e interrogarne

      Il perchè non ardiva.

      Una rancura

      Vigile sempre nel profondo petto

      La tormentava, la scotea dall’ebro

      Assopimento: le dicea:

      – Tu dormi,

      Ma teco io sono!

      Edmenegarda fece

      Per non udir quell’importuno grido.

      Ma, qual punta di dardo in piaga viva,

      Ei riveniva.

      Disperata pianse,

      Meditò, corrucciossi, e forza a forza

      Apertamente oppose.

      – «Hai ben ragione,

      Leoni mio. Noiosa è questa vita

      Di servitù, chiusi dall’onde. Io stessa,

      Che vivrei teco ne’ deserti, or sento

      Che dritto n’hai, se la disami. Eguali

      Qui gli strepiti, sempre egual la pace;

      Gondole eterne e gondolieri e ciance.

      Mai quell’ampio e vibrato aere, quel sole

      Che non si franga dalle pietre in fiamma;

      Mai quel vario veder, quell’agitato

      Scalpitio de’ cavalli e quel de’ campi

      Dolce tumulto; mai quelle segrete

      Melodie che fa l’ôra in tra le fronde;

      Né un fil d’erba, né un fior, né una dolce ombra,

      Che queti il cuore! E non poter da un cocchio

      Splender coll’uom che s’ama; o sulla sponda

      Seder d’un rivo e udir per la pianura

      Limpidi canti, e nella folta siepe

      Il rosignol che piange! In mezzo all’acque

      Morrebbe certo l’amator gentile!…

      Oh la terra! la terra!… Ai primi padri

      Già non fur le pesanti onde marine

      Prima stanza d’amore!»

      «E non tel dissi,

      Edmenegarda mia, che ti verrebbe

      Questo vivere a noia? Esserti caro

      Quel che a me spiace?… Hai detto ben. La terra,

      La terra è stanza dell’amor; non questa

      Prigion dell’onde. Cresce, nel sonante

      Tumultuar, la vita. A questo pigro

      Nido di pesci abbandoniam le stolte

      Anime di costor. La non curanza

      Con lo spregio si paghi. Edmenegarda!…

      Alla terra, alla terra!

      «O mio Leoni,

      Mi batte il cor di questa ebbrezza!… » —

      Han d’uopo

      Quei due miseri ormai del tempestoso

      Romoreggiar del mondo!

      E un agil cocchio,

      Tratto in balìa di palafreni ardenti,

      Per le città, tra il sonito e la polve,

      Già li rapisce; e invidiata splende

      La bellissima donna. E or le vetuste

      Vie d’Antenore varca; e tu la miri

      Seder superba e sfolgorante in quelle

      Marmoree maraviglie, onde ai futuri

      Inclito andrà del mio Japelli il nome.

      Or su i berici colli, in mezzo a tanta

      Allegrezza di verde, alle rugiade

      Mescon dell’alba i solitari amplessi;

      Or volano al beato Adige in riva,

      E tra i penduli salci, ove s’estinse

      L’armonia di Catullo, un molle accordo

      Par che ai lor baci tuttavia risponda.

      Poi de’ piani lombardi e delle valli

      Cercarono il sereno aere, e la ricca

      Popolosa città.

      Ma il gelsomino

      Sotto i vampi del sol, senza una fresca

      Ala di vento che lo irrori, a terra

      Debbe un giorno languir!

      Sai tu le gioie

      Amare e forti della bella figlia

      Del Caramano, nei dipinti arémi?…

      Oggi il fervido sir preme sul petto;

      Pensieroso diman vede il monarca,

      E sente il peso delle sue catene.

      Un dì, regno sull’alma. Indi è procella

      Di tetro amor – di voluttà – di sdegno —

      Di fastidio – d’oblio – di rinascenti

      Gioie – con vano ritornar sui tempi

      Che più non sono.

      Di Leoni è fatto

      Nebbioso il cor. Qualche benigno accento,

      Qualche cura gentil, qualche soave

      Sorriso vi splendea, come una queta

      Ma fuggitiva luce. Il resto è lampo,

      Che vien coll’oragano a illuminarne

      Gli schianti e la ruina.

      O Edmenegarda,

      Che cor fu il tuo – quell’amator sì umano

      E caldo e mansueto or lo veggendo

      Così diverso!

      Gli favella?… È un dono

      Inaspettato, s’ei la man le stringe,

      O sorridendo le ricambia il detto. —

      Gli si pone d’appresso? Ei sfoglia un libro

      Sbadatamente e legge. Osa mostrargli

      Qualche rancor? S’infuria; e le fa pieni

      Gli

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