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sono detti Gianghè, come la tribù che divide i Scìluk dai Nuèr. Ma gl'indigeni si riconoscono col nome di Gièn; e con questo nome generale appellansi tutte le tribù che parlano la lingua dei Dénka, avendo ciascuna anche un nome proprio significativo, come meglio vedremo parlando delle tribù Dénka del Nilo superiore, le quali hanno con queste comuni i costumi.

      I Scìluk però e i Nuèr non sono compresi nel novero dei Gièn, dai quali vengono considerati come antichi invasori delle loro terre. E in fatto essi fanno uso di un'altra lingua, sebbene intendano e parlino pure quella dei Dénka.

      Chi amasse entrare in particolari sulla conquista che la potente e fiera tribù dei Scìluk fece, molti anni sono, del Sènnaar, rendendosi tributario il paese fino a Bèrber, non ha che a leggere il Bruce e il Brocchi[4].

      Presso l'11º grado, a destra del fiume Bianco, s'alza un piccolo monte, che gli Arabi nominano Tefafàn o Bìbar, e i Dénka Kur-uìr, cioè masso del fiume. In questo punto Brun-Rollet sulla sua carta segna un influente, ch'io trovo notato anche su altre carte, a cui dà il nome di Pìper (dal monte Bìbar); ma in realtà non è che un canale, o, per usare della frase dei Dénka, un occhio del fiume (ñġàen) chiamato da essi Tarciàm, il quale esce dal fiume presso il monte Bìbar, e dopo un giro di circa quindici miglia geografiche ritorna nel fiume stesso. La sua maggiore distanza dal fiume è dalle quattro alle cinque miglia. Ciò riscontrai col mio collega defunto Angelo Melotto in una nostra esplorazione fra i Dénka Abialàñġ.

       Indice

      Caratteristiche della razza negra — Il paese dei Scìluk — I cani — Odio contro i Turchi — Raffronti della lingua dei Dénka con quella dei Scìluk.

      Il viaggiatore che parte dal Cairo e si dirige, rimontando il Nilo, verso il sud, traversa successivamente l'Egitto, la Nubia, il Sènnaar; e a misura ch'egli s'avvicina all'equatore vede cangiarsi intorno a sè il teatro delle creazioni di natura.

      Arrivato però a Chartùm (15°, 37′), s'egli continua il suo cammino lunghesso il fiume Azzurro sino a Fazòql, e quindi segue il Tómat fin quasi alle sue sorgenti, si troverà finalmente in mezzo alle tribù nere dei Bèrta, e crederà così d'aver veduto concatenarsi l'Egiziano aborigene col crespo Etiope per una gradazione insensibile di colore, che non gli permetterà di segnare il punto ove finisce l'uomo bianco ed ove incomincia il nero.

      Che se dalla città di Chartùm veleggia pel fiume Bianco verso il mezzodì, egli distinguerà facilmente dall'Arabo giallognolo o bruno i negri Dénka della penisola del Sènnaar, che dal 12º grado si estendono fino al 9º di lat., e i negri Scìluk, posti agli stessi paralleli, a sinistra del fiume.

      Ma i Bèrta, i Dénka, i Scìluk, i quali tutti hanno la pelle nera, ci presentano forse tutti il tipo del vero Negro, del crespo Etiope?

      Il color della pelle, che cade subito sott'occhio, non può essere trascurato da un osservatore superficiale. Le differenze di forme potranno sfuggirgli, ma non quelle di colore, le quali saranno per lui base d'una classificazione grossolana.

      Il naturalista al contrario poco o niun caso fa del colore, il quale talora non serve nè manco a distinguere le varietà d'una medesima specie; e altrettanto dicasi delle tinte dei fiori e delle foglie nelle piante, dei peli e dei capelli negli uomini. La materia colorante, la sostanza, (il pigmentum), che sta nelle cellule dello strato mucoso dell'epidermide, si sviluppa e si condensa sotto l'influenza di alcune circostanze, fuori delle quali sparisce o vi si mostra appena. Quindi è che l'Arabo giallognolo dell' Heggiàs si fa bianco in Algeri e in Aleppo, e bruno nel Sènnaar e sulle rive del Senegàl. Il corpo umano trasportato da una in un'altra latitudine, vi perderebbe la vita se non si producessero in lui delle modificazioni. Sotto una temperatura elevata, un'aria secca, un vento rapido, la traspirazione sarebbe eccessiva se la pelle non fosse resa assai meno porosa e quasi impermeabile a certi fluidi, che sono i veicoli stessi della vita. Una pelle densa e rugosa sottrae il corpo dall'azione troppo brusca delle variazioni atmosferiche; lo preserva da congestioni cerebrali e da colpi di sole; lo ripara dal freddo, imperciocchè arresta l'irradiazione e la dispersione del calore del sangue: sicchè la pelle dei Negri è al tatto meno calda della nostra, e li protegge come protegge noi il vestito.

      Questa pelle densa però non presenta presso tutti gli Africani le medesime tinte di colore. Ma egli è certo che fra i popoli più barbari del centro dell'Africa la pelle offre una tinta assai nera, o s'avvicina a quella della fuliggine, pelle dura, rugosa, la quale facilmente si screpola. Presso i Negri del Sudàn le unghie sono bianche o, dirò meglio, sembrano tali, e talvolta sono leggermente colorite, e tal'altra hanno un color rosa.

      Non si creda però che la pelle abbia lo stesso colore in tutte le parti del corpo. Ov'essa è più densa ha un colore più oscuro, come sui ginocchi, sul gomito, sulle tempie ecc.

      La pianta del piede però, la palma della mano, la pelle posteriore al ginocchio sono le parti meno oscure.

      Il sudore dei Negri, che in generale è poco abbondante, manda un odore acuto, acre, spiacevolissimo. Quindi non deve far meraviglia se le bestie feroci attaccano i Negri a preferenza dei Bianchi. Il loro fiuto annunzia assai più facilmente l'avvicinarsi dei primi che non quello dei secondi.

      Se non che non è la pelle, come già dissi, che noi dobbiamo interrogare per conoscere le differenze reali che passano tra l'una e l'altra razza.

      La fisonomia del Negro puro è talmente caratteristica, che è impossibile, anche a chi non sia molto addentro in questi studi, non riconoscerla a prima vista, quando pure l'individuo avesse la pelle bianca. Le sue labbra sporgenti, la fronte bassa, i denti in fuori, i capelli corti, lanosi, semiricciuti, la barba rada, il cranio depresso, il naso largo e schiacciato, il mento fuggente, le mascelle salienti, gli occhi rotondi, le orecchie grandi, le braccia lunghe e gracili, le gambe arcuate con polpaccio piccolo, i ginocchi semipiegati, i piedi lunghi e piatti col tallone sporgente all'indietro, lo sterno tondeggiante, il corpo un po' curvo all'innanzi e il portamento stanco, gli danno un aspetto speciale fra tutte le altre razze umane.

      La Negra sovente raccoglie da terra degli oggetti, senza punto piegare le gambe; chinando il corpo tutto d'un pezzo, a partir dal bacino, ella prende colla mano ciò ch'ella desidera. Una donna bianca a grande stento potrebbe imitare tale movimento.

      Ciò premesso, i Bèrta, quantunque la loro pelle sia nerissima, non ci presentano il tipo del vero Negro[5], mentre invece sono veri Negri i Dénka e i Scìluk. Dei Bèrta ho già parlato in un altro mio lavoro, ove scrissi pur qualche cosa dei Dénka, dei quali però molto ancora mi resta a dire, che dirò più tardi quando mi toccherà di parlare delle tribù Dénka del Nilo superiore. Or qui non farò che trascrivere alcune note, le quali trovo sparse qua e là ne' miei vecchi giornali di viaggio risguardanti i Negri scìluk e il loro paese.

      Il paese dei Scìluk, che conta dai 15 ai 20 mila, abitanti, dal 12º grado si estende lungo la riva sinistra del fiume fin quasi al 9º di lat. settentrionale, mentre non oltrepassa un quarto di grado in longitudine, partendo dalla riva verso occidente. Esso in generale è fertilissimo; l'estremità sud-ovest però è assai paludosa, e sabbiosa è quella a nord.

      Nelle vicine boscaglie più che altrove crescono i tamarindi, e moltissime piante, che gli Arabi chiamano Àmbag[6] (Aedemone mirabilis), e verdeggianti nàbak (Rhàmnus Nabèca, secondo Forskal,) adornano ambedue le rive.

      Nei luoghi paludosi cresce naturalmente il riso rosso selvatico, e dopo il 10º grado, rimontando il fiume, s'incontrano boscaglie di palme delèb (Borassus Aethiopum) e di palme dóm.

      I Scìluk coltivano con amore il sesàme, il mais bianco (dùrah), piccoli fagiuoli e tabacco. Non parlo degli animali selvaggi,

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