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Il fiume Bianco e i Dénka: Memorie. G. Beltrame
Читать онлайн.Название Il fiume Bianco e i Dénka: Memorie
Год выпуска 0
isbn 4064066068899
Автор произведения G. Beltrame
Жанр Книги о Путешествиях
Издательство Bookwire
Abd-El-Kàder, che altro non s'aspettava che la morte, li vide di lontano e cominciò a sperare la vita; fece sforzi incredibili per levarsi da terra e mover loro incontro, ma invano; le braccia e le gambe più non gli servivano: a stento riuscì a strascicarsi fino alla bocca della spelonca e a mandar fuori lamenti e gemiti da intenerire il cuore più duro. Il Gawàs fu il primo ad udir quelle grida, e disse al Beduino che lo accompagnava: ascolta.... ascolta tu pure.... queste sono certamente le grida d'una bestia che soffre dolore.... ed escono da quella grotta che tu vedi là presso il torrente; eccola, eccola la fiera che si contorce.... debbo io inviarle contro la palla della mia pistola?
— No, no, rispose il Beduino: io son d'avviso ch'esse sieno invece le grida d'un infelice che chiede soccorso, e io voglio assicurarmene: balzò giù dal dromedario, e dopo pochi salti fu alla spelonca. — Oh spettacolo!! — Il Beduino levò di peso Abd-El-Kàder e sei portò al pozzo, ov'egli venne trattato con umanità e si sentì subito ristorato. I due passeggieri consecrarono inoltre quel giorno a sotterrare i morti compagni di Abd-El-Kàder, i cui corpi disseccati dal sole giacevano ancora sopra la sabbia rossa del loro sangue; e l'indomani partirono tutti e tre alla volta di El-Obèid.
Dopo qualche anno alcuni Baggàra raccontavano con tuono di vanto questo avvenimento colle più minute circostanze.
Il suono d'un tamburone, chiamato noggàra, battuto a misurati colpi invita la tribù al combattimento ed annunzia ancora una semplice mutazione di posto per comodità dei pascoli.
L'arma degli Arabi nel Sudàn, e così presso i Baggàra, è la lancia (hàrba), la quale serve loro anche da giavellotto. Questi Arabi non hanno nè arco, nè frombola, che tanto solevano usare i loro antenati. I capi specialmente si servono pure di lunghe spade diritte cui imbrandiscono con ambo le mani.
In guerra si difendono collo scudo che non è altro che un telaio ovale, formato d'un legno flessibilissimo e traversato per lungo da un asse della medesima specie, sopra il quale essi stendono e fissano la pelle del dorso d'un'antilope. La sua larghezza è circa di due piedi, e dai tre ai cinque l'altezza. La superficie esteriore è convessa, e nel mezzo della parte opposta sta l'impugnatura. Sull'orlo poi superiore sono, per lo più, alcune tacche, delle quali si valgono per appoggiarvi l'asta della loro lancia e per dirigerne quindi meglio i loro colpi. Quantunque la pelle di cui è formato lo scudo sia molto dura, pure succede talora che vien perforata dalle punte dei giavellotti; perciò il guerriero cerca di ripararne i colpi o colla sua lancia o collo scudo, che oppone in direzione obliqua alla linea percorsa dai giavellotti. L'Arabo minacciato dal nemico s'abbassa, mettendo un ginocchio in terra e coprendosi nello stesso tempo collo scudo; scatta poi su come una molla allorquando alla sua volta egli tenta di attaccarlo.
I Baggàra combattono possibilmente a cavallo, ed allora non hanno lo scudo, di cui sono quasi sempre muniti i soldati a piedi. Questi vengono tradotti a cammello sul teatro del combattimento; e ciascun cammello ne trasporta due, dei quali l'uno siede sul gibbo e l'altro si tiene in sulla groppa del ruminante. Questo mezzo di trasporto torna nel Sudàn assai facile e pronto; e siccome i cammelli vi si trovano in una quantità enorme, così arrivati a posto i combattenti non se ne danno gran pensiero, ma gli affidano a pochi guardiani, i quali a non molta distanza attendono inquieti l'esito della pugna.
Gli Arabi del fiume Bianco, come i Nubi, hanno quasi tutti legato sopra il gomito sinistro un pugnale del quale si servono a vari usi, e qualche volta per isfogare le loro gelosie o per far mostra del loro coraggio. — Un d'essi ha preso moglie e trovasi contento, beato d'aver ottenuto quella mano, a cui tanti altri aspiravano ardentemente ma invano. Or questi ingelositi della sua felicità non lo perdono d'occhio mai, gli tendono continue insidie, non gli lasciano un istante di riposo; e quand'egli meno ci pensa sente che la punta di un pugnale gli trapassa la polpa d'una gamba o lo ferisce in un braccio o in una spalla. Se il ferito giunge a conoscere il feritore, lo sfiderà poi a duello davanti al Capo della tribù, duello che avrà luogo col pugnale e alla presenza del Capo stesso. Ma nell'atto del tradimento si guardi bene il tradito dal lasciarsi sfuggire un grido, dall'emettere il più piccolo lamento per non meritarsi fama d'uomo debole e vigliacco, servo del dolore; s'egli camminava non s'arresti punto: se parlava non interrompa il discorso, non si conturbi, nè volga il capo verso l'assassino.
Qualche volta un giovine guerriero racconta ad altri giovani le sue prodezze e se ne vanta, dicendo che nessuno può superarlo in valore; e un altro giovine, che non può più tollerare le sue petulanti presunzioni, senza rispondergli afferra il pugnale e se lo conficca in una coscia, e passandolo poi insanguinato al millantatore, lo invita a fare altrettanto s'egli non vuol essere da meno.
Questi costumi sono senza dubbio barbari e feroci; non si può negare però ch'essi imprimano in coloro dai quali vengono praticati una singolare energia, un coraggio passivo, invincibile e stoico. E si noti che questi atti di eroismo si manifestano specialmente fra i giovani che appartengono alle più distinte famiglie della tribù.
Molti fra noi male sopportano un forte dolor di capo, di denti, di stomaco; la più leggiera ferita strappa loro un grido; ma l'Arabo invece saprà sostenere senza risentirsi e senza rammaricarsi i più atroci tormenti; e non è ch'egli non soffra; egli soffre quanto noi soffriamo; ma il punto d'onore gli fa dire come allo stoico: «Non sarà mai, o dolore, ch'io ti confessi in nessun modo.» Non la sete, non la fame nè la stanchezza nè le ferite profonde di una lancia potranno indurlo ad inquietarsi; e mentre nei divani dell'Egitto si veggono i Fellahìn, condannati al bastone o alla sferza, trascinarsi piagnolosi ai ginocchi delle autorità turche perchè sia loro conceduto il perdono o alleviata la pena, s'è ammirato più d'una volta l'Arabo del Sudàn subire lo spaventevole supplizio del palo senza accordare a' carnefici assetati di vendetta il trionfo di un gemito, la soddisfazione di una lagrima.
Io so d'un Arabo il quale, facendo parte d'un drappello militare che aveva seguito il governatore del Kordofàn in una spedizione contro i Baggàra, si rese colpevole d'omicidio, ed assiso quindi presso il cadavere della sua vittima attendeva paziente e tranquillo che i satelliti del Governo venissero ad arrestarlo. Alcuni soldati, che di là passarono per caso, lo videro, l'afferrarono e lo condussero alla tenda del Governatore.
Più di venti uomini stringevano l'omicida il quale non opponeva alcuna resistenza; e chi lo tirava per le braccia, chi per le gambe, chi pel collo e chi per i capelli; e com'egli fu davanti al Governatore: «Sappi, o Signore, sclamò, ch'io non ebbi la viltà di fuggire dopo l'uccisione del mio Capo, ma attesi imperterrito la mia cattura; or dì adunque a' tuoi cani che mi lascino in pace, affinchè libero io possa, se mai, marciare al supplizio come un uomo.» Il Governatore ordinò fosse lasciato libero; e l'Arabo allora cominciò ad esporre i motivi che, secondo lui, erano più che sufficienti a giustificare il suo delitto. Ma il Governatore lo condannò a morire legato alla bocca di un cannone carico a palla, a cui egli stesso avrebbe dovuto dar fuoco. Mentre si facevano i preparativi per l'esecuzione della sentenza, l'Arabo che aveva sentito con tutta indifferenza la propria condanna uscì dalla tenda ove si trovava, e avvicinatosi a un gruppo di soldati che lì presso erano accoccolati, pregò uno di essi che fumava a voler cedergli un istante la pipa; quindi si raccolse più che gli fu possibile in sè stesso, fumò mezza pipa, e quando