ТОП просматриваемых книг сайта:
Il fiume Bianco e i Dénka: Memorie. G. Beltrame
Читать онлайн.Название Il fiume Bianco e i Dénka: Memorie
Год выпуска 0
isbn 4064066068899
Автор произведения G. Beltrame
Жанр Книги о Путешествиях
Издательство Bookwire
Vidi fra i Scìluk una bellissima razza di cani. Il fondo della loro pelle è grigiastro e screziato qua e là di macchie oscure. Essi hanno forme eleganti; somigliano a' nostri levrieri, ma sono più piccoli. Non saprei per qual sentimento, i Scìluk gli amano e li proteggono.... sarà forse per solo interesse, poichè i cani guardano nella notte i loro bestiami. Avvicinandosi qualche fiera alle zerìbeh (ricinti), ove trovasi raccolto il bestiame, essi mettono urli, latrati e guaiti da lacerare le orecchie ad un sordo; i Negri gridano l'allarme, aizzano i cani; questi uniti in frotta s'avventano contro le fiere, e se non possono raggiungerle le inseguono rabbiosamente fino a una certa distanza; qualche volta però piombano loro addosso, e allora ne segue una battaglia feroce, un sottosopra da non poter farsene idea. Le fiere possono rimaner vinte; ma più spesso ci perdono i cani. Qualcheduno nel mattino non si vede più a comparire; qualche altro è là sul terreno disteso vittima della mischia; questi grondano sangue, quelli han rotte le gambe o lacerate le orecchie. Poveri cani!.... e non meriterebbero d'aver dei padroni che gli amassero e li proteggessero un po' meglio di quel che non facciano i Scìluk? Ma essi invece sono abbandonati, vagabondi, senza nome, senza una capanna che li ricoveri, senza leggi. Sono tutti nel deserto, vi si scavano delle piccole tane, vi dormono, vi mangiano, vi nascono, vi allattano i piccini e vi muoiono. Tutto l'amore che i Scìluk hanno per loro si riduce a non maltrattarli, a non permettere che sieno maltrattati e a non lasciar loro mancare il cibo. Non ho udito mai che un cane sia divenuto rabbioso; e sì che da quelle parti i cani patiscono seti ardentissime a lungo tempo sostenute. Bisogna dire adunque che la sete ardente non sia il motivo o, dirò meglio, l'unico motivo della rabbia dei cani. Certo è ch'essa nasce spontanea nel cane, nel lupo, nella volpe, nel gatto, e che questi animali la trasmettono agl'individui della loro specie, ai quadrupedi di specie diversa, ed all'uomo; ma non s'è potuto fin qui dimostrare in che consista la disposizione di detti animali, e specialmente del cane, la quale da origine alla rabbia spontanea, nè quali sieno le circostanze o le condizioni a ciò necessarie. E supponendo pure colali condizioni, si ignorano le cause, onde sono poste in atto. Molte, a dir vero, se ne sono divisate, ma non àvvene alcuna la quale regga ad un esame profondo.
I primi viaggiatori e mercanti europei che visitarono i Negri scìluk, li trovarono sospettosi, diffidenti, e per conseguenza pericolosi e crudeli. E tali divennero specialmente dopo la spedizione egiziana in Nubia (1821), del cui passaggio si risentirono tanto, mentre essa era diretta verso il fiume Sóbat, e nel suo ritorno a Scèndi. Ma il loro odio contro i Bianchi, ch'essi credevano tutti Turchi, crebbe assai più allorquando, un anno dopo, intesero la disumana strage di Scèndi, per la quale si volle in qualche modo vendicata la morte d'Ismail-Pascià[7]; odio che il monarca e i vecchi del paese non tralasciarono mai d'istillare nel cuore dei giovani, allo scopo di renderli avversi ad ogni relazione coi Bianchi. Fin d'allora i Scìluk ebbero in fondo all'anima il vago sentimento d'una forza aggressiva, crescente, minacciosa de' popoli bianchi, dalla quale temevano o presto o tardi d'essere schiacciati. E quando gli Europei dopo alcuni anni tentarono di metter piede fra loro per recar doni al Capo supremo, in apparenza, ma in realtà, pensavan essi, per vedere, scrutare, fiutare, corrompere e spiare così il terreno per farne una conquista; quando furono veduti con taccuini in mano, con cannocchiali, con istrumenti misteriosi ficcarsi da per tutto, notar tutto, misurar tutto, voler saper tutto.... tanto più crebbero i sospetti ed i timori d'un'invasione, e immaginavano questa invasione accompagnata da tutti gli orrori dell'odio e della vendetta, persuasi com'erano che i Bianchi nutrissero contro di loro gli stessi sentimenti, ch'essi nutrivano contro i Bianchi. Ma a poco a poco i Scìluk cominciarono a distinguere i Turchi dagli altri Bianchi europei ed a comprendere che questi non avevano mire ostili, e che tutt'al più attendevano al solo commercio.
La prima volta ch'io vidi i Scìluk fu nel 1858, allo spuntar dell'alba del 28 gennaio. Ero coi miei compagni e col missionario Matteo Kirchner, che fu poi degno successore del defunto Provicario Ignazio Knoblecher, quando la dahabìah (gran barca) della Missione, carica delle provvisioni di un anno per le due stazioni di Santa Croce, nella tribù dei Kic fra il 6º e il 7º lat. N., e di Kondókoro, nella tribù dei Bàri tra il 4º e il 5º grado, arrenò in un banco di sabbia presso la sponda sinistra, ov'erano attendati provvisoriamente alcuni Negri scìluk pescatori colle loro famiglie. I nostri barcaiuoli fecero tutti gli sforzi per disimpacciarla, ma inutilmente. Dovemmo aspettare il chiaro giorno, ed invitare que' Negri che venissero in nostro soccorso, promettendo loro un bel regalo in perline di vetro che essi amano tanto. Ma non ci fu verso di persuaderli a venire fin quasi al mezzodì; essi non si fidavano della nostra lealtà; ci credevano Turchi. Allora uno dei nostri barcaiuoli, di nome Mahàmmed-Chèr, saltò in acqua e s'avvicinò alla sponda mostrando loro alcune file di perline di vetro delle più belle che avevamo per adescarli, assicurandoli nello stesso tempo che i Bianchi che si trovavano nella gran barca non eran Turchi, e che perciò non temessero di nulla. Capitarono quindi sopra una mal connessa barchetta circa dodici Scìluk, e giunti alla distanza d'una decina di passi da noi, s'arrestarono, ci squadrarono ben bene, si scambiarono a bassa voce alcune parole, vollero vedere la quantità de' regali che noi avremmo data; fecero poi sforzi incredibili, insieme coi nostri barcaiuoli, per cavare la barca dall'arena, ma non riuscirono nè manco a smoverla. Noi demmo loro il regalo convenuto e li pregammo d'indurre anche i loro compagni, che ci stavano osservando dalla riva, perchè venissero a prestarci assistenza, facendo loro nuove promesse. Accorsero allora su quattro o cinque barchette tutti i Scìluk pescatori che colà si trovavano e che saranno stati intorno a trenta, muniti di lancia, lasciando sole le donne con i bambini. A dir vero noi temevamo questi liberatori, che alzando la voce pretendevano vedere quali e quante perline avremmo loro date; e vedutele ce le presero fuor di mano quasi colla forza; lanciando poi grida selvagge cominciarono a spingere la dahabìah verso il corso d'acqua navigabile; ma non appena essa fu smossa, le donne dalla riva, agitando le braccia e mettendo acutissimi strilli, incitavano i loro mariti a fuggire. Questi saltarono tosto nelle loro piroghe e in pochi istanti guadagnarono la sponda, negandoci ogni ulteriore soccorso e dicendo che noi eravamo Turchi. Stemmo lì fermi fino al giorno seguente; i Negri durante la notte erano già scomparsi; che cosa fare?... Noi credemmo miglior partito di alleggerire la dahabìah delle casse più pesanti, improvvisando alla meglio una zattera coi remi e con altro per adagiarvele; quindi tentammo a tutto fiato di smuoverla, ma indarno; calammo allora altra roba sulla zattera; e finalmente alle due pomeridiane, la Dio mercè, siamo usciti dal difficile passo e ci rimettemmo sul buon canale. I barcaiuoli ricaricarono con gran fatica ogni cosa, e alle ore cinque e mezza partimmo col vento in poppa.
Nell'anno 1860 io tornai a visitare i Scìluk e li trovai trattabili e pieni di fiducia specialmente verso gli Europei non Turchi, ch'essi sapevano distinguere assai bene.
In questa occasione io ebbi la fortuna di parlare più volte con un Capo di questi Negri, il quale oltre la propria lingua e quella dei Dénka parlava speditamente anche l'araba, essendo egli stato schiavo per alcuni anni nella casa di un Turco, alla morte del quale potè ricuperare la libertà che aveva perduta fin da tenero giovinetto.
Da questo Capo io raccolsi principalmente quanto sto scrivendo sui Negri scìluk, ed ho ragione di credere che tutto ciò che mi disse sia vero, perchè è conforme a quello che udii ripetere da qualche Arabo, il quale da lungo tempo trattava con questi Negri, ed a ciò ch'io stesso ho potuto osservare.
Ho detto altrove che i Scìluk, come i Nuèr, non sono compresi nel novero dei veri Dénka (Gièn), dai quali vengono considerati come antichi invasori delle loro terre; e di fatto essi fanno uso di un'altra lingua, sebbene intendano e parlino pure quella dei Dénka[8].
Io volli notare alcune parole della lingua propria dei Scìluk, per indagare