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giardini, o palagi!...

      ma gl'immensi studii fatti intorno all'antichità lo rivolgono di preferenza a quel mondo pagano dal quale dovrebbe rifuggire interamente per essere romantico del tutto; nel quale dovrebbe serenamente rifugiarsi per essere del tutto classico. Nato più presto o più tardi, il suo spirito avrebbe forse seguito una sola corrente e nella nettezza delle visioni e nella saldezza dei convincimenti avrebbe trovato forza e sostegno: l'età perplessa nel quale vive accresce il suo disagio. Se egli possedesse una nativa capacità d'equilibrio, a lui si potrebbe riferire ciò che il Giordani dice del Canova, e “pietosa„ sarebbe stata la provvidenza ponendolo “sul doppio confine della memoria e dell'immaginazione umana a congiungere due spazii infiniti, richiamando a noi i passati secoli, e de' nostri tempi facendo ritratto agli avvenire„; ma questa congiunzione, alla quale il Leopardi artista deve la sua grandezza, è anche un'altra causa del dolore dell'uomo.

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      Quantunque, per la nativa sua tempra e per effetto dell'educazione, Giacomo Leopardi sia un'anima in pena, mal preparata a trovare e ad apprezzare la felicità, che è il bisogno di ogni uomo; nondimeno, se la fortuna gli sorridesse, se i beni gli si offrissero ed egli non li sapesse apprezzare, non avrebbe ragione di negarli. Ma che cosa gli prepara la vita?

      Il primo, il più necessario, il più urgente dei beni è la salute, la pienezza, l'interezza delle facoltà organiche; senza di che nessun altro piacere, nessun'altra gioia è possibile, e lo stesso sentimento dell'essere è leso e menomato. “Il corpo è l'uomo„ fa dire lo stesso Leopardi al suo Tristano: “perchè (lasciando tutto il resto) la magnanimità, il coraggio, le passioni, la potenza di fare, la potenza di godere, tutto ciò che fa nobile e viva la vita dipende dal vigore del corpo, e senza quello non ha luogo. Uno che sia debole di corpo, non è uomo, ma bambino; anzi peggio; perchè la sua sorte è di stare a vedere gli altri che vivono, ed esso al più chiacchierare, ma la vita non è per lui.„ Questo vigore corporale, la salute, il sommo bene, a pochi è negato: tanto esso è frequente e necessario, che il primo posto si dà ordinariamente ad altri, perchè “la vita è principalmente dei sani, i quali, come sempre accade, o disprezzano o non credono di poter perdere ciò che posseggono.„ Il Leopardi ne è privo.

      Noi lo abbiamo visto scontento perchè, mentre la fantasia vivacissima gli dipinge arcani mondi ed arcana felicità, la ragione lo contrasta; e perchè mentre sente troppo, è poco capace di volere; ma insomma, con tutta la straordinaria sua precocità, egli è ancora un fanciullo, un adolescente, che impiega il suo tempo nello studio, che ha una gran febbre di sapere, che non si stanca di leggere, di annotare, di commentare, di trasportare sulle esili braccia i pesanti volumi dai palchetti della biblioteca alla scrivania. Supponiamo che in gioventù, nella maturità, egli goda d'una buona salute: il mondo, nonostante che egli lo sdegni, tosto o tardi, debolmente o fortemente, pure lo allaccerà. Invece, a diciassette anni, egli esce dagli studii portentosi con la schiena curva, i muscoli emaciati, la vista rovinata: il fanciullo vivace, l'eroe Filzero che le dava a tutti e non ne toccava da nessuno, Giacomo “il prepotente„ è un povero gobbo minacciato di cecità, oggetto di riso e di compassione. Senza dubbio non la sola enormità dello sforzo lo ha così ridotto; egli porta dalla nascita, nelle vene, un principio maligno. Le morti precoci, le malattie nervose e la pazzia sono state frequenti tra i suoi antenati; il sangue della vecchia stirpe si è impoverito e corrotto nei molteplici matrimonii tra consanguinei: troppe volte i Leopardi s'imparentano con gli Antici, ai quali appartiene anche la madre di Giacomo. Ella lo concepisce giovanissima, in tempi di spavento, quando il marito di lei è perseguitato dai Francesi invasori. L'eredità morbosa e il formidabile sforzo mentale spiegano la rovina della sua salute: la rachitide e quella che oggi si chiama neurastenia. Nel primo fiore della gioventù egli si sente morire, crede che non gli restino più di due o tre anni da vivere. Non ne ha ancora venti, e già la sua vita consiste nell'alzarsi tardi, nel mettersi a passeggiare sino all'ora del desinare, nel riprendere poi la passeggiata sino alla sera: non può scrivere un rigo e appena riesce a leggere per un'ora. Così dura sette mesi. Si rimette alla peggio, e allora capisce qual è la sua condanna: “ho potuto accorgermi e persuadermi, non lusingandomi, o caro, nè ingannandomi, che il lusingarmi e l'ingannarmi pur troppo è impossibile, che in me veramente non è cagione necessaria di morir presto, e purchè m'abbia infinita cura, potrò vivere, bensì strascinando la vita coi denti, e servendomi di me stesso appena per la metà di quello che facciano gli altri uomini, e sempre in pericolo che ogni piccolo accidente e ogni minimo sproposito mi pregiudichi, o mi uccida.„

      A ventun anno, nella primavera del 1819 comincia a soffrire d'una debolezza dei nervi oculari che gl'impedisce di poter leggere anche una sola riga; trascorre allora i suoi giorni sedendo con le braccia in croce, o passeggiando per le stanze, in modo che gli fa spavento. “Nell'età che le complessioni ordinariamente si rassodano, io vo scemando ogni giorno di vigore, e le facoltà corporali mi abbandonano ad una ad una.„ Ripiglia un po' di forza al rinfrescarsi della stagione, “ma l'imbecillità degli occhi, e però la miseria della mia vita, è sempre la stessa e maggiore.„ Il primo d'ottobre comincia una lettera al Giordani, ma un'oftalmia sopravvenuta alla debolezza non gli consente di finirla se non in sul finire del mese. L'amico lo sollecita a studiare; “gli studi,„ risponde il poveretto, “non so da otto mesi che cosa sieno, trovandomi i nervi degli occhi e della testa indeboliti in maniera, che non posso non solamente leggere nè prestare attenzione a checchessivoglia, ma fissar la mente in nessun pensiero di molto o poco rilievo.„ Egli si duole “di avere un cervello nel cranio„, perchè non può pensare minimi e fugacissimi pensieri “senza contrazione e dolore de' nervi„; il male degli occhi lo riduce “alla natura dei gufi, odiando e fuggendo il giorno.„ Ha una tregua di quasi un anno; ma nell'autunno del '20 “o che la fatica mi ha pregiudicato, se bene è stata moderatissima, o per qualunque altra ragione, sento che la mia povera testa ricade nella debolezza passata.„ Così va avanti, “come Dio vuole: quando peggio, quando meglio, sempre inetto a lunghe applicazioni.... Io studio la notte e il dì fino a tanto che la salute me lo comporta. Quando ella non mi sostiene, io passeggio per la camera qualche mese; e poi torno agli studi, e così vivo.„ In ogni inverno i suoi mali s'incrudiscono, il freddo è per lui “una malattia grave„, un “carnefice e nemico mortale„; nè la primavera gli è del tutto propizia, perchè gli produce ogni anno una penosa “inquietezza di nervi.„ Nel marzo del '25 è ridotto a tale, che non può “fissar la mente in una menoma applicazione, neppure per un istante, senza che lo stomaco vada sossopra immediatamente, come m'accade appunto adesso, per la sola applicazione di scrivere questa lettera.„ A Bologna, poco dopo, si sente un altro, quasi guarito della testa e degli occhi; ma il caldo patito in viaggio gli produce una grave e penosa infiammazione d'intestini che si prolunga sino all'anno seguente; e il primo freddo lo avvilisce, e il rigido inverno lo tormenta in modo straordinario, “perchè la mia ostinata riscaldazione d'intestini e di reni m'impedisce l'uso del fuoco, il camminare e lo stare in letto.„ Soffre pertanto pene indescrivibili, “quanto forse in tutto il rimanente della mia vita insieme.„ Con la primavera si sente tornare in vita “da una vera morte„; ma se appena appena in aprile il tempo si guasta, egli deve ritirarsi dal mondo e chiudersi in casa. Finalmente con l'estate migliora; ma ricade appena fa una gita a Ravenna. Si propone di fuggire da Bologna, tanto lo spaventa l'idea di passarvi un altro inverno; ma prima che ne fugga gli sopravviene un reuma di capo, di gola e di petto con febbre e sordità. Nel cuore dell'inverno del '27 guarisce, a casa sua, dopo quattordici mesi, del male degli intestini; ma ricominciano a patire gli occhi “miserabilmente.„ Tornato a Bologna, gli danno un fastidio sempre più grave; a Firenze la flussione e l'enfiagione delle palpebre peggiorano: non può vedere la città, non può sostenere la luce. Guarita la flussione, gli resta la consueta debolezza dei nervi ottici e della testa, complicata dal male dei denti; e quantunque l'inverno lo atterrisca, è ridotto a sperare che sopravvenga tosto, perchè il freddo, pregiudicandolo in tutto il resto, gli giova per gli occhi.

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