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ed ostinata che io abbia sofferto da otto anni in qua. Sto bene, eccetto incomodi leggieri di flussioni e di stomaco.„ Vedete: è ridotto a tale che, con la vista rovinata, con altri incomodi di flussioni e di stomaco, pure dice che sta bene! Spera la guarigione “provvisoria e non radicale„ della vista con l'inverno, ma il primo freddo lo disturba; poi, se migliorano gli occhi e i denti, torna a soffrire con lo stomaco, “perchè, per paura di farmi male, non mangiavo più quasi nulla.„

      Lo hanno accusato di vagabondaggio, mentre il disgraziato è costretto a mutar di luogo per tentar di alleviare le sue pene. Va a Pisa nell'autunno del '27, e lì si sente assai meglio, quantunque gli occhi non guariscano interamente; e se il freddo gli fa bene, egli trema dalla mattina alla sera non potendo far uso del fuoco: “l'uso del camminetto mi è impossibile assolutamente e totalmente; giacchè anche lo scaldino, il quale adopero con moderazione infinita, m'incomoda assaissimo.„ Il 31 di gennaio così descrive il suo stato: “Questi miei nervi non mi lasciano più speranza; nè il mangiar poco, nè il mangiar molto, nè il vino, nè l'acqua, nè il passeggiare le mezze giornate, nè lo star sempre in riposo, insomma nessuna dieta e nessun metodo mi giova. Non posso fissar la mente in un pensiero serio per un solo minuto, senza sentirmi muovere una convulsione interna, e senza che lo stomaco mi si turbi, la bocca mi divenga amara e cose simili.„ La sua vita “è noia e pena: pochissimo posso studiare.... La mia salute è tale da farmi impossibile ogni godimento: ogni menomo piacere mi ammazzerebbe„; e l'infelice trova un'espressione terribilmente efficace per dipingere la sua miseria: “Se non voglio morire, bisogna ch'io non viva....„ Dovendo tornare a Firenze viaggia di notte: nondimeno sta male più giorni con gl'intestini e si persuade che non è più fatto per muoversi. “Tutti i miei organi, dicono i medici, son sani: ma nessuno può essere adoperato senza gran pena, a causa di un'estrema, inaudita sensibilità che da tre anni ostinatissimamente cresce ogni giorno: quasi ogni azione e quasi ogni sensazione mi dà dolore.„ Per stare tollerabilmente, deve aversi una gran cura, evitare di riscaldarsi e vivere senza far nulla.

      Con la nuova stagione ricominciano i mali di ventre: non può mangiare, si riduce talvolta a patire la fame perchè lo stomaco non tollera cibo senza dolori, “i quali sono tanto più gravi, quanto è maggiore la quantità del cibo, benchè questa non sia mai superiore, anzi appena uguale, al bisogno.„ Si rimette, ma gli ritorna la flussione degli occhi, ed è ancora costretto a tralasciare le occupazioni della mente. “La mia salute è passabile,„ scrive il 18 settembre del '28 al padre, “eccetto la solita estrema sensibilità ed irritabilità d'ogni sorta, la quale non posso vincere con l'esercizio (benchè questo per il momento mi sia sempre giovevolissimo), e m'obbliga ad avermi una cura eccessiva, minuta e penosa.„ Per comporre una letterina entra “in convulsione e in una specie di febbre.„ In autunno: “i dolori e le difficoltà smaniose del digerire mi travagliano molto.„ Di ritorno a Recanati, non può “nè leggere, nè scrivere, nè pensare, nè digerire il mio pranzo, che è pur piccino.„ Nell'estate del '29 “lo sfiancamento e la risoluzione dei nervi„ va sempre crescendo. In luglio scrive alla Maestri: “Non solo non posso far nulla, digerir nulla, ma non ho più requie nè giorno nè notte.„ E in agosto allo Stella: “La mia salute è in misero stato e la mia vita è un purgatorio.„ E in settembre al Bunsen: “Non solo i miei occhi, ma tutto il mio fisico sono in istato peggiore che non fossero mai. Non posso nè scrivere, nè leggere, nè dettare, nè pensare. Questa lettera finchè non l'avrò terminata sarà la mia sola occupazione, e con tutto ciò non potrò finirla se non fra tre o quattro giorni.„ A Firenze, nel '30, ha sputi sanguigni ad ogni più piccolo raffreddore, e passa mesi interi in letto; torna anche a smaniare per lo stomaco: “Se non vedrete mie lettere,„ scrive alla sorella, “non vi meravigliate mai: assolutamente non posso, non posso scrivere.„ Ogni riga gli costa “sudor di sangue.„ È ridotto “un tronco che sente e pena.„

      E la crudele vicenda ricomincia col nuovo anno: in primavera si sente rinascere, “ma nè occhi nè testa non hanno ricuperato un solo menomissimo atomo delle loro facoltà, perdute certamente per sempre.„ S'illude ancora, crede d'esser guarito nell'autunno; ma già lo turba il solo pensiero dell'inverno, che dovrà passare in casa, “secondo il mio antico e poco ameno costume.„ A Roma, dove va col Ranieri, è inchiodato a letto dal mal di petto, che continua sino alla primavera del '32, con miglioramenti e ricadute successive. Nell'estate, a Firenze, il caldo gli fa soffrire “molta debolezza e malessere, poichè tutta la mia salute e il mio vigore dipende dalla moderazione della temperatura, la quale mancando, sto sempre male.„ E nell'autunno torna ad allettarsi per un altro reuma di petto: il terzo in dieci mesi. Arriva in fin di vita, si ristabilisce a primavera; ma gli occhi sono nuovamente, più seriamente minacciati dall'erpete, e quasi perduti. Nell'estate ritornano a riammalarsi: uno è semichiuso.

      Tale è la sua rovina, che, deliberato di tentare il clima di Napoli, non può dare direttamente notizia al padre della partenza; si deve servire della mano altrui, “perchè quelle poche ore della mattina, nelle quali con grandissimo stento potrei pure scrivere qualche riga, le passo necessariamente a medicarmi gli occhi.„ E a Napoli la via della croce ricomincia ancora una volta: dapprima gli occhi sembrano guariti, poi egli deve tornare alla cura del sublimato corrosivo; quando l'erpete migliora, resta ancora il male interno, insanabile. Nell'autunno del '35 paga il suo tributo alla stagione con una costipazione accompagnata da copiose emorragie del naso. Le condizioni generali si sollevano, nell'inverno dal '35 al '36 può tornare un poco a pensare, a leggere, a scrivere; passa oltre un anno mediocremente: ma è l'ultimo guizzo della lampada vicina ad estinguersi. Già le gambe cominciano a gonfiarsi, già il respiro diventa affannoso. Il primo freddo del '36 lo fa spasimare più che quello sofferto a Bologna dieci anni prima, e sul principio del dicembre il ginocchio e la gamba diritta gli si gonfiano e diventano d'un colore spaventevole. Si porta questo male sino alla metà di febbraio, quand'ecco un nuovo attacco di petto. L'occhio diritto è minacciato da amaurosi; gli sopravviene un attacco d'asma per il quale non può nè camminare, nè giacere, nè dormire. Il 14 di giugno, a trentanove anni, muore improvvisamente, durante il desinare.

      Tale fu la vita dell'infelice: mai forse tanta grandezza d'ingegno fu pagata con tanta miseria del corpo. Negli altri, nelle creature sensitive del suo tempo, i dolori si alternano con i piaceri, alle contrazioni incresciose seguono pure i fremiti di godimento; il suo supplizio è per questo inaudito: che non solo egli soffre fino allo spasimo, ma non può godere. Gli occhi che dovrebbero aprirsi agli spettacoli della natura, della bellezza, sono costretti a fuggire la luce; il sangue che dovrebbe scorrergli impetuoso nelle vene ed avvivargli le membra ed imporporargli le guance, gli spunta sulle pallide labbra: le ossa gli si rammolliscono, le carni gli si avvizziscono: la tisi, l'idropisia, la cardiopatia se lo contendono. E questi mali non gl'impediscono soltanto di soddisfare il naturale appetito del piacere, di cercare le grate impressioni; ma anche di appagare l'altro suo bisogno: il bisogno di studiare, di meditare, di comunicare con i grandi spiriti dei poeti e dei filosofi, di raccogliersi in sè stesso, di scrivere il suo pensiero, e anche di pensare soltanto. Qualcuno gli consiglia di disprezzare i piccoli incomodi; ma potrà mai essere piccolo incomodo per lui l'impossibilità di studiare? Egli non può lasciare gli studi, e questi non hanno fatto e non fanno altro che male, e male grave, alla sua salute. “Ma come passar la vita senza di loro?„ Vivere senza pensare non gli è possibile; ed egli non può pensare, ma deve vivere; allora si duole che, dovendo pur essere al mondo, non sia “pianta o sasso o qualunque altra cosa non ha compagna dell'esistenza il pensiero.„

      Così, mentre egli è per la sua costituzione morale poco capace di volontà, la sua costituzione fisica gli vieta quasi ogni azione diretta a contentare le prepotenti sue facoltà naturali. La sensibilità, che naturalmente cerca le impressioni grate, deve fuggirle e non ne prova alcuna; la stessa riflessione, la stessa meditazione, che sul principio lo ha consolato sino ad un certo segno dei mancati piaceri, è anch'essa continuamente impedita.

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