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pazienza„, che la solitudine “non è fatta per quelli che si bruciano e si consumano da loro stessi„; e insomma, come tutti i romantici, egli è inquieto, incontentabile, non sa quel che vuole: “A me piace moltissimo la compagnia quando son solo, e la solitudine quando sono in compagnia....„ Dopo aver educato sentimenti idilliaci, si compiace, come i suoi maestri, degli spettacoli tragici, delle convulsioni della natura: la sua Saffo classicamente esprime un pensiero romantico:

      Noi l'insueto allor gaudio ravviva

      Quando per l'etra liquido si volve

      E per li campi trepidanti il flutto

      Polveroso de' Noti, e quando il carro,

      Grave carro di Giove a noi sul capo

      Tonando, il tenebroso aere divide.

      Noi per le balze e le profonde valli

      Natar giova tra' nembi, e noi la vasta

      Fuga de' greggi sbigottiti, o d'alto

      Fiume alla dubbia sponda

      Il suono e la vittrice ira dell'onda.

      Ma il suo stato abituale è il tedio, il fastidio, la noia; come quello dei romantici che, non contenti di annoiarsi all'italiana, alla francese o alla tedesca, hanno preso ad imprestito lo spleen inglese. Il tedio lo affoga, la noia non solamente lo “opprime e stanca„ ma lo “affanna e lacera„; e tanto gli è abituale, tanto è connaturata in lui, che gli pare naturale, lodevole e grata: “la noia non è se non di quelli in cui lo spirito è qualche cosa.„

      Noi dovremo tornare più tardi su questi punti: notiamo per ora come altri sintomi del male romantico si riscontrino nel Leopardi. Sdegnando il mondo e i loro simili, che faranno gli annoiati? Niente nella vita gli attira; essi soli sono perfetti: passeranno pertanto il loro tempo osservando sè stessi; l'analisi psicologica viene in grande onore. L'abito filosofico di studiare nella propria la natura di tutti gli uomini è afforzato nel Recanatese da questa mania del suo tempo; egli pensa che nessuno scritto è più eloquente di quello dove altri parla di sè stesso. E mentre una forma d'arte, il romanzo, già cronaca degli avvenimenti, diventa ora lo specchio dell'anima; mentre Stendhal compone i suoi primi romanzi psicologici; Giacomo Leopardi, quello stesso classico Leopardi il quale voleva scrivere un romanzo storico “sul gusto della Ciropedia„, pensa di comporre la Storia d'un'anima: “romanzo che avrebbe poche avventure estrinseche, ma racconterebbe le vicende interne di un'anima nata nobile e tenera, dal tempo delle sue prime ricordanze fino alla morte„; pensa anche di comporre i Colloquii “dell'io antico e dell'io nuovo, cioè di quello che io fui, con quello ch'io sono; dell'uomo anteriore all'esperienza della vita e dell'uomo esperimentato.„

      Se pure i romantici non fossero sdegnosi della realtà, se pure stimassero i loro simili e volessero frequentarli ed imitarli, vivendo come essi, ne sarebbero capaci? Le assidue analisi intime, l'intensità del pensiero, prima che nel Leopardi, in tutti gli altri romantici e nell'iniziatore della scuola attenuano l'energia volitiva e rendono incapaci di vivere: lo stesso Leopardi nota questa sua parentela col Ginevrino quando, enumerato nel Filippo Ottonieri i diversi generi di uomini, ragiona di quelli nella cui natura “è congiunta e mista alla forza una sorta di debolezza e di timidità: in modo che essa natura combatte seco medesima. Perocchè gli uomini di questa seconda specie.... non vengono a capo, nonostante qualunque cura e diligenza vi pongano, di addentrarsi all'uso pratico della vita, nè di rendersi nella conversazione tollerabili a sè non che altrui. Tali essere stati negli ultimi tempi, ed essere nell'età nostra, se bene l'uno più, l'altro meno, non pochi degl'ingegni maggiori e più delicati. E per un esempio insigne, recava Gian Giacomo Rousseau.„

      L'incapacità di vivere come gli altri, l'assiduità delle meditazioni, la noia, l'inquietudine, la solitudine, producono la malattia del secolo: la malinconia, la disperazione, l'amor della morte. Se l'anima immaginosa e sensibile ha esaurito prima di vivere la sua forza vitale, se l'esperienza la scontenta, se il mondo la disgusta, se la solitudine la snerva, se gli altri la offendono, se la propria compagnia la stanca, dove resterà un rifugio? Nella morte, unicamente. A questa conclusione arrivano tutti i romantici. Werther si uccide, Ortis si uccide; i loro imitatori non sono soltanto legione nell'arte, ma anche nella vita. Una donna, la Staël, fa l'elogio del suicidio; un'altra donna, Elisa Mercoeur, tenta di asfissiarsi col profumo dei fiori. Vittorio Escousse a 19 anni e Augusto Lebras a 16, si asfissiano insieme perchè non si sentono al loro posto quaggiù, perchè manca loro la forza a ogni passo fatto avanti o indietro. Alfredo de Vigny riconosce che il suicidio è un delitto per la religione e per la morale, ma la disperazione può più che la ragione; e, se la vince, sarà da chiamar colpevole il suicida, il poeta, o non piuttosto il mondo?... Non occorre citare altri esempi. Miglior partito sarà dimostrare la forza di questo contagio. Giacomo Leopardi forse anche senza l'epidemia romantica avrebbe disperato; ma, senza le cause della sua disperazione che indagheremo fra poco ad una ad una, i germi del male diffusi nell'aria del suo tempo avrebbero attecchito e prodotto una grande rovina dentro di lui. Questi germi erano così virulenti che attaccarono e minacciarono per un momento la salute morale d'un uomo d'azione, dell'uomo destinato ad operare cose grandissime, dell'uomo che ebbe la massima energia e il massimo impero sopra sè stesso, sopra i suoi simili e sul mondo: Napoleone Bonaparte. “Je suis ennuyé de la nature humaine,„ scrive egli un giorno al fratello Giuseppe: “Les grandeurs m'ennuyent, le sentiment est desséché, la gloire est fade.„ Ed anch'egli si duole: “Un jour, au milieu des hommes, je rentre pour rêver en moi-même, et me livrer à toute la vivacité de ma mélancolie. De quel côté est elle tournée aujourd'hui?„ Ed anch'egli pensa alla morte: “Du côté de la mort. Dans l'aurore de mes jours, je puis encore espérer de vivre longtemps, et quelle fureur me porte à vouloir ma destruction?... Que faire dans ce monde?... Puisque je dois mourir, ne vaut-il pas autant se tuer? Si j'avais passé soixante ans, je respecterais les préjugés de mes contemporains et j'attendrais patiemment que la nature eût achevé son cours; mais puisque je commence à éprouver des malheurs, que rien n'est plaisir pour moi, pourquoi supporterais-je des jours on rien ne me prospère?...„

      Se Bonaparte non sfuggì al contagio nei primi tempi dell'epidemia, con quanta violenza non deve essa comunicarsi più tardi, nell'infuriare del romanticismo, ad un'anima sensitiva e fantasiosa come quella del Recanatese?... Abbiamo visto che la potenza del sentimento poetico e dello spirito filosofico è in lui causa di un intimo disagio; questo disagio potrebbe essere, ma non è curato dall'educazione; tutt'altro. Una disciplina uniforme avrebbe potuto essergli salutare; ma egli nasce in un tempo travagliato, in mezzo a un campo di battaglia. Senza l'avvelenamento romantico, non è da credere che le sue facoltà poetiche, l'immaginazione e la sensibilità, sarebbero state represse a vantaggio delle altre; ma non sarebbero state esasperate come furono. E se pure il poeta avesse potuto sentire come i romantici, senz'altro, certo non sarebbe stato contento, come non furono contenti i suoi predecessori e compagni e seguaci; ma non avrebbe sofferto, come soffrì, per avere nello stesso tempo tanto assiduamente ripensato il pensiero antico. Mentre intorno a lui ciascuno scrittore lotta contro un altro, egli lotta con sè stesso: è classico e romantico a un tempo, è attratto dall'una all'opposta parte. Fra le due retoriche cerca un accomodamento: la letteratura s'indirizzi “verso il classico e l'antico„ col soccorso della filosofia, trattando soggetti “del tempo„, riconoscendo “la necessità di adattarsi al gusto corrente„; ma i sentimenti, gli atteggiamenti morali, grazie ai quali ogni altro scrittore si mette piuttosto con l'una che con l'altra fazione, non si conciliano dentro di lui o si conciliano per farlo soffrire; perchè, mentre il romanticismo lo disgusta del reale, il classicismo lo rende incapace di adattarsi al mondo moderno. Leggete il suo canto Alla primavera, che porta anche un secondo titolo: Delle favole antiche: vedrete che egli loda i tempi quando tutta la natura era animata, quando le candide ninfe e gli agresti Pani popolavano i fonti ed i campi, quando i fiori e l'erbe ed i boschi vivevano, quando Eco non era un “vano error di venti„ ma il dolente spirito di una ninfa infelice. Il sentimento che glie lo detta non potrebbe essere più classico; consideratelo più attentamente: troverete che non è tanto classico quanto pare; c'è dentro quella stessa scontentezza del presente e del vicino che spinge i romantici verso il passato e l'esotico. I romantici puri si rifugiano col pensiero nel medio-evo cavalleresco e cristiano; il

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