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III, e così venne meno la sua inesorabile insistenza 103. Il 9 marzo egli era partito da Napoli, insieme con la Viceregina ed una distinta comitiva di Nobili, che erano felici di potersi mostrare servitori affezionati a S. M.tà e di poter guadagnare anche le indulgenze del Giubileo in Roma, nè fu di ritorno prima del 27 aprile. Potremmo narrare una grande quantità di aneddoti intorno a questo viaggio, ma ce ne asteniamo. Diremo solamente, per quanto riflette i casi della nostra narrazione, che tra' nobili i quali ottennero l'onore molto ambìto di accompagnare il Vicerè vi fu il Principe della Roccella, insieme col suo primogenito Girolamo Marchese di Castelvetere, la qual cosa venne ritenuta un favore particolare del Vicerè dietro la brillante condotta del Principe nella cattura del Campanella: oltracciò il Nunzio espose al Card.l S. Giorgio il desiderio che si trattassero in Roma direttamente col Vicerè gli affari più gravi, e tra questi non v'era compreso l'affare del Campanella, ma del resto, malgrado le promesse del Cardinale, non se ne fece nulla. Era rimasto in Napoli Luogotenente del Regno il figliuolo secondogenito del Vicerè, D. Francesco de Castro, giovane di anni e maturo di senno, il quale non fu tiepido nel volere spedita la causa del Campanella, ma non avea la voce autorevole del padre, e il Nunzio poteva tanto più opporgli la sua. Il 12 aprile, forse in previsione del prossimo ritorno del Vicerè, ma piuttosto in sèguito di una novità manifestatasi nel Campanella, come vedremo più oltre, il Sances chiese istantemente a' Giudici che si spedissero le cause del Campanella e di fra Dionisio: il Nunzio si avvide allora, abbastanza tardi, degl'inconvenienti a' quali si andava incontro, e si oppose, e volle che si attendesse per avere nuove istruzioni da Roma. Ecco come egli ne scrisse al Card.l S. Giorgio in una sua lettera del 14 aprile, che importa tener tutta sott'occhio, mentre da essa si rileva qual fosse la posizione giuridica del Campanella e di fra Dionisio, con la corrispondente condanna in vista. «Tornammo due giorni sono à trattar della causa della ribellione, et perchè il Fiscale di essa mi fece una gagliarda instanza della speditione quanto alla persona di fra Thomaso Campanella et di fra Dionigi Pontio, non volsi consentire che si trattasse della fine, non si sapendo ancora dove N. S.re voglia si conoschino le materie appartenenti al S.to Offitio, oltre che reputandosi l'uno confesso che è il Campanella, et l'altro convinto che è il Pontio, potrà facilmente essere la fine delle loro cause il degradarli, e darli alla Curia secolare, ma non mi è parso che questo si deva fare in modo alcuno, senza parteciparlo prima con S. S.tà rimanendo sospesa la causa del S.to Offitio. Et se bene di questo se ne potrà fare espressa riserva, ho non dimeno per un certo che di convenienza reputato sia bene che S. B.ne lo sappia, et comandi se in ciò gli occorre altro, questo medesimo risposi hieri al Sig.r D. Francesco de Castro che à suggestione, per quanto credo, del medesimo fiscale me ne parlò tanto efficacemente, non si volendo far capace delle ragioni che mi movevano à voler prima parteciparlo costà, che mi hebbi à risentire, parendomi d'esser troppo stretto, et à dire risolutamente che non ne voleva far nulla et che mi pareva strano che in un negotio che hà durato più di 6 mesi mi si volesse ridurre ad un' giorno, quando per haver una risposta di costà ne bisognavano 10 ò 12 che non erano anche tanti che si convenisse negarmeli, et perciò desidero haver di questo risposta quanto prima».

      La posizione del Campanella, e così pure quella di fra Dionisio, erano dunque nettamente definite: il Campanella ritenevasi confesso, fra Dionisio convinto, e secondo la giurisprudenza e i termini chiari ed espliciti del Breve Papale dovevano essere, previa la degradazione, consegnati al braccio secolare, naturalmente con quella rutinaria preghiera altrove menzionata che la pena fosse «senza pericolo di morte» etc., preghiera che la giurisprudenza imponeva, e che era sottinteso non doversi tenere dal braccio secolare in alcun conto104. Erano dunque accolte le conclusioni del Sances, e senza dubbio, pronunziata la condanna di degradazione e consegna alla Curia secolare, la Curia Pontificia non avrebbe più ricevuto il Campanella nelle sue mani per sottoporlo al processo dell'eresia, segnatamente essendovi l'intenzione, come appunto il Papa l'avea una volta manifestata, che gl'interessati nel negozio dell'Inquisizione si mandassero a Roma. Il Nunzio ebbe a capire quanto male a proposito si era procrastinato il giudizio dell'eresia, e nel tempo stesso si era largheggiato in concessioni pel giudizio della congiura; ed il pericolo di non poter più fare il giudizio dell'eresia, non già la menoma idea di salvare il Campanella, indusse lui ad esigere e Roma ad approvare che si soprassedesse alla spedizione della causa. Intanto siffatta sospensione giunse realmente a salvare dalla morte il Campanella e così pure fra Dionisio; ma il Governo Vicereale dovè ritenerla una manovra dalla parte di Roma in beneficio de' frati ribelli, e dovè legarsela al dito, poichè a' termini del Breve Papale non c'era da rivolgersi ancora a Roma ed «aspettare il comandamento di S. S.tà», ma potevasi concretare la sentenza e poi aspettarlo. Ad ogni modo la sospensiva non fu messa innanzi dal Governo perchè non sapeva come condannare que' frati innocenti, secondo che è stato affermato da altri scrittori; e vedremo anzi quanto esso insistè, durante più anni, perchè si compisse una volta la spedizione della causa, finchè non sopraggiunsero altri fatti, pe' quali sorse un grave sospetto che Roma volesse addirittura salvare que' frati in dispregio del potere civile.

      Da Roma, il 22 aprile, si scrisse al Nunzio che tra poco si manderebbe una risposta risoluta, e intanto si lodava che egli non avesse consentito alla spedizione della causa della ribellione, mentre pendeva la deliberazione da prendersi per quella dell'eresia. Effettivamente venne poi, alcuni giorni dopo, comunicata la deliberazione che vi si procedesse in Napoli, e già durante tutto questo tempo si era continuato lo svolgimento del processo della congiura, trattandosi le difese degli altri frati. Questo si rileva dalle lettere del Nunzio del 24 e del 28 aprile, nella quale ultima si dice «che i prigioni per la ribellione… seguono le loro difese, nelle quali non ci è parso restringerli, se bene i termini concessi à tal effetto erano passati». Quali siano state le difese de' rimanenti frati non conosciamo: alcuna Difesa scritta per loro dal De Leonardis non ci è pervenuta, e questo ci fa pensare che forse essi siano rimasti senza Difesa scritta. Del rimanente ecco quanto troviamo in coda a' rispettivi Riassunti degl'indizii, dove si ebbe cura di registrare ciò che si fece da questo lato. Pel Pizzoni troviamo, «habuit defensiones quas fecit», e da ciò desumiamo che egli siasi difeso da sè. Pel Petrolo, e così pure pel Bitonto, troviamo semplicemente «habuit defensiones», donde desumeremmo che questi due si siano rimessi alla giustizia del tribunale senza difendersi, la qual cosa collimerebbe col loro grado di cultura molto più basso. Per gli altri frati poi, cioè il Lauriana, fra Paolo della Grotteria, fra Pietro di Stilo e fra Pietro Ponzio, non troviamo alcuna annotazione, e dovremmo desumerne che il Sances abbia rinunciato all'azione penale contro di loro. È quasi superfluo aggiungere che pe' frati suddetti, come pel Campanella e fra Dionisio, e parimente pel Contestabile, furono compiute le difese ma restò sospesa la spedizione della causa: essi dovevano, o come principali o come testimoni, sottostare al processo dell'eresia, e la Curia Romana avea deliberato che dovesse prima svolgersi quest'altro processo. Così la sorte di tutti costoro rimase sospesa durante molto altro tempo, e da ciò rimase danneggiato singolarmente fra Pietro Ponzio, il quale non era implicato in nessuno dei due processi e restava intanto nel carcere; ma vedremo tra poco che appunto nel carcere erano già cominciati a sorgere alcuni sospetti contro di lui. – La deliberazione che il processo dell'eresia dovesse trattarsi in Napoli fu annunziata dal Card.l di S.ta Severina, con lettera del 28 aprile che troveremo a capo del relativo processo: questa lettera pervenne al Nunzio verso i primi di maggio, come si rileva dall'altra che egli scrisse al Card.l S. Giorgio in data del 5 maggio. Si fu dunque perfettamente in tempo a cominciare il processo dell'eresia mentre terminava il processo della congiura per gl'inquisiti ecclesiastici fin allora presi; e come la spedizione di quest'ultimo processo rimase sospesa, così dobbiamo anche noi sospendere il racconto dell'esito riserbandolo pel tempo suo.

      Ci occorre pertanto narrare un fatto importantissimo, che si era già verificato in persona del Campanella fin dai primi di aprile. Con un accesso subitaneo e violento si era manifestata in lui la pazzia: questo incidente, non senza conseguenze giuridiche per lui, merita tutta la nostra attenzione, e cominceremo dal vedere dapprima quanto egli medesimo ne lasciò scritto. Nelle lettere del 1606-1607, pubblicate dal Centofanti, una volta scrisse, «furono negate le difese, e per questo sopraggiunse la pazzia»; un'altra volta scrisse, «mi fecero pazzo essi con tanti tormenti et con non lasciarmi difensare»105. Più tardi (il 1614) in una delle note nelle sue Poesie scrisse, «bruciò il letto, e divenne pazzo ò vero ò finto» Скачать книгу


<p>103</p>

È bello conoscere l'atteggiamento de' giuristi napoletani e del Consiglio Collaterale, fin dalla prima notizia di questo passo della Corona di Spagna verso Roma: ce l'insegnano due brani di dispacci del Residente Veneto scritto il 14 7bre e 26 8bre 1599. – 1.o «Intorno alla investitura del Reame persistono tuttavia quelli che nelle materie feudali sono stimati più intendenti, che non dovesse la M.tà Cattolica condescender mai a dimandarla, poichè il Re suo padre, nell'atto che allhora era necessario per la rinuncia fatta vivendo dall'Imperator Carlo, fù investito da Papa Giulio terzo per sè et legitimi heredi, et discendenti secondo l'obligo et uso delle antiche et moderne infeudationi». – 2.o «Il Consiglio non può accomodarsi che sia la persona sua (int. del Vicerè) che faccia l'atto di prestar l'obedientia al Papa, facendo in ciò molte considerationi, et movendo consequenze importanti per gli interessi di questo Regno con la Sede Apostolica, le quali tutte sono state con esso corriero rappresentate alla M.tà Cattolica». – Ma le rimostranze furono vane, e al Vicerè fu rinnovato l'ordine di recarsi a Roma.

<p>104</p>

Confr. vol. I.o pag. 70.

<p>105</p>

Ved. nell'Archivio Storico Italiano an. 1866 la Lett. latina al Papa, a pag. 82, e la Lett. al Re di Spagna a pag. 91.