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      Un bel giorno con Roberto Jannacone si recarono dal parroco, un vecchissimo prete, stretto da' bisogni, sempre perplesso su ciò che dovea fare, timido, anzi pauroso, infermo, e gli dichiararono voler essere marito e moglie. Enrica presentava, come dono alla chiesa, molti ducati d'oro.

      Il parroco, secondo l'uso de' tempi, previe certe formalità, univa in matrimonio segreto la duchessa Enrica e il figlio del contadino Ciccillo Jannacone.

      Roberto fece subito a Enrica una promessa: rendersi degno di lei, prima che il loro matrimonio fosse palese; prima che essa ne parlasse al duca.

      A Enrica tutto allora sembrava facile, anche il parlare a suo padre, appena fosse tornato.

      Già apparivano le conseguenze della funesta passione, ch'ella non palesava ad alcuno, ma l'atterrivano.

      Roberto si arruolava nella marina e partiva, tre settimane dopo il loro segreto matrimonio, per lunghi viaggi.

      Cristina nulla seppe di questo matrimonio; combinato con ogni cautela, fra un prete debole e due giovani esaltati, e il cui atto rimase iscritto solennemente nell'archivio della parrocchia.

      Enrica, per un pezzo, ricordò, con profonda commozione, la semplice scena di questo matrimonio: la chiesetta disadorna, il prete, tutto conturbato e pur compiacente, che mormorava con un peculiare accento le parole del rito; essa che stringeva convulsa la mano di Roberto.

      E Roberto le metteva in dito un anello che ella stessa gli aveva dato.

      Pochi giorni dopo la partenza del giovane, Enrica era tornata alla sua fierezza, al suo più schietto egoismo.

      Provava un immenso, invincibil disgusto di ciò che avea fatto: inorridiva del legame, onde s'era unita a un uomo sì basso: arrivava persino, nell'orrore che le ispirava quanto era accaduto, ad augurarsi che a Roberto incontrasse qualche mala ventura: non tornasse più.

      Nel giovane, invece, l'assenza raddoppiava, ingagliardiva l'amore.

      Egli si faceva istruire da' suoi superiori: cercava prender in esempio i migliori: ne imitava i modi: affinava il suo parlare: imparava, in pochi mesi, a leggere e scrivere: il comandante della nave lo faceva suo segretario, lo prediligeva molto.

      Nelle lunghe giornate di bonaccia, nelle notti tranquille, o fra lo scatenarsi delle tempeste, egli pensava sempre ad Enrica: a lei soleva riportare ogni sua azione: s'ispirava all'affezione per lei: sapea ripetersi quasi ogni parola che essa gli avea detto nella lunga loro dimestichezza: la rivedeva in tutti i suoi atteggiamenti capricciosi, in tutta la sua florida bellezza: l'amava, l'adorava, la vezzeggiava: la fantasia, come accade, gliela metteva innanzi più perfetta ch'ella non fosse.

      Non potendo parlare ad altri, sempre pensava, sognava di Enrica. Aguzzava, affuocava ogni giorno la sua passione. Se un dubbio lo pungeva che altri potesse torgli la donna ch'egli amava, insidiargli il possesso di lei, quell'uomo robusto, indomito, di sbrigliate passioni, si sentiva rimescolare il sangue, gli pareva che una nube rossastra gli oscillasse dinanzi agli occhi, il cuore gli dava che sarebbe stato capace di tutto, anche di un delitto e di più che un delitto.

      Ma quanta era la veemenza dell'amore da un lato, tanta era dall'altro la forza del disgusto.

      Enrica ormai odiava Roberto: aveva paura del giorno in cui egli sarebbe tornato a rammemorarle la sua promessa: e cercava persuadersi che un tal giorno non sarebbe venuto mai.

      Aveva dovuto confidarsi con Cristina dell'amore pel giovane, delle conseguenze della passione.

      Cristina s'era detta in modo preciso:

      —Un segreto come questo mi gioverà, mi arricchirà di sicuro!

      Ella si preparava a sfruttar Enrica in tutte le condizioni della sua vita.

      La sapeva generosa, prodiga del denaro pe' suoi fini: in piaceri, se non in opere buone: stava sicura di poterla liberare dal figliuolo del contadino, ch'ella stessa ormai, con singolare ingratitudine (o donne!), non avrebbe più voluto vedere: la immaginava sposa di un gran signore, riputata, stimata, invidiata da tutti: ma ella sempre sarebbe comparsa a turbar le sue gioie, a esigere da lei nuovi sagrifici, a spogliarla di ciò che avesse di più caro, de' suoi diamanti, de' ricordi della sua famiglia, sinchè la sua sordida cupidità non fosse paga.

      Dopo, l'avrebbe torturata, ma soltanto per suo diletto.

      Enrica, in certi momenti, era stata con lei assai altera e cattiva: e quell'animo triste dovea pensare a vendicarsene raffinatamente.

      Per ora, si faceva umile; si era impadronita del grande segreto: la sventurata maternità di Enrica; avea accettato a ricettar la bambina, che dovea servire d'oggetto alle sue future minaccie, a' suoi lunghi ricatti, e che considerava già strumento della sua fortuna.

      L'aveva affidata a Domenico e mandata per lui in luogo sicuro, fidando nella lealtà, nella onestà di esso, nelle prove di simpatia, in ardui servigi che ne avea avuto.

      Ma la sorte, come vedremo, disponeva altrimenti.

      —Sì,—continuava Cristina, parlando, stravolta come una furia, alla sua padrona, nella camera di lei,—bisogna tener celato a Roberto ch'egli è padre…. altrimenti sarebbe impossibile il dissuaderlo, l'allontanarlo….

      Ma, per le ragioni che sa il lettore, ciò non quietava le angoscie di

       Enrica.

      —Sei ben certa,—domandò languidamente,—che la bambina sarà stata condotta con ogni cura e sarà trattata con vero amore?

      —Oh, per questo!—rispose ipocritamente Cristina, il cui pensiero volava sempre a' futuri guadagni, alla potenza che avrebbe acquistato sull'animo della padrona, giovandosi di tal segreto, e non contava punto sul forte carattere di lei.

      Enrica piangeva, di quel pianto spasmodico, proprio de' malvagi, degli altezzosi, stretti dalla disperazione….

      Il pianto la scoteva tutta: e, ad un tratto, come concludendo una serie di pensieri che la crucciavano, sospirò:

      —È impossibile…. impossibile…. confessar tutto a mio padre!

      E, alzandosi, divenuta ormai, per le smanie, i delirii, le sofferenze, quasi simile a uno spettro nella fisonomia, guardandosi tutta in un grande specchio, disse con uno de' suoi ghigni feroci:

      —E, poi, per un istante di oblio… per la violenza di un mascalzone… io non voglio rinunziare al mio bell'avvenire…. Se la vita di costui è d'ostacolo alla mia, può essere annientata….

      E si gettò fra le braccia di Cristina, ben degna di comprendere un tale pensiero.

      Udirono un rumore alla finestra: un colpo secco, come se vi fosse stata lanciata una pietruzza.

      La pietruzza, infatti, era ricaduta sulla terrazza nella quale si trovava il duca.

      Il lume si era spento nel salotto e il duca che, sin allora, era rimasto meditabondo, si scosse, fece alcuni passi: e subito udì un fruscìo di foglie.

      —Chi va là?…—gridò il duca.

      Qualcuno correva nel parco.

      I cani latravano.

      E di lì a poco si udì uno sparo.

      Il duca continuava a gridare;

      —Chi va là?… Chi va là?…

      Comparve sotto la terrazza una guardia con la lanterna.

      —Eccellenza,—disse costui,—un uomo è entrato nel parco… l'ho inseguito… gli ho fatto fuoco contro… ma egli, per gli alberi, si è arrampicato, non so come, in vetta al muro in fondo al parco, e si è gettato di là com'uno scoiattolo…. Dev'essere certo un uomo del paese… La porticina è chiusa a chiave… non ho potuto inseguirlo. Ho raccolto a piè del muro, donde s'è gettato, un bottone nuovo che luccicava: un bottone di uniforme di marina…. E l'ha perduto, senza dubbio, l'uomo che fuggiva… poichè vi è un segno di sangue tuttora fresco…. Nel fuggire, egli

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