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io ti adoro: e vorrei stringerti di nuovo tra le mie braccia…. Ti salverò ad ogni costo: anche a costo della mia vita."

      Enrica ripiegò la lettera e la mise nel suo seno per rileggerla più a suo agio. La lettera le piaceva: essa voleva destare grandi passioni: godeva irretire, far vittime con la sua bellezza, con la sua frenesia di piaceri; l'averla amata, desiderata, già costava la vita a due uomini, ad uno di essi anche l'onore: il solo ricordo di ciò sarebbe bastato ad aumentare l'acutezza de' suoi godimenti in avvenire.

      Vi hanno esseri sì pervertiti cui lo stesso pensiero del male serve di pungolo, di stimolo alle gioie materiali, le ravvalora, le rende più vive.

      Nell'istruttoria del processo, Roberto, sottoposto a ogni molestia da un giudice ignorante e crudele, non volle dir verbo.

      Non negò, non confessò di esser autore del delitto: tacque sempre: gli ripugnava, mal suo grado, fino il dichiarare ch'egli era innocente, per una tenera deferenza per Enrica.

      Qualche volta era stato tentato di parlare, allorchè il pensiero gli correva a suo padre; ma rifletteva subito: A che prò? Quali testimonianze egli aveva? Chi avrebbe prestato fede più a lui che alla figlia del duca? E poi tutte le apparenze non erano contro di esso?

      Dobbiamo pur dire ch'egli si apponeva assai male: e appunto nel suo contegno, nobilissimo, ma improvvido, avrebbe trovato la maggior causa della sua rovina.

      Ed ecco perchè.

      Già in Napoli, come fra gli stessi coloni tra' quali era nato e che aveano assistito in sì gran numero alla denunzia del suo delitto, molti se gli manifestavano favorevoli, propensi a credere alla innocenza di lui. E ne vedremo la causa.

      Vi fu il processo.

      Roberto, dopo aver risposto alle domande generali, disse non aver altro da aggiungere.

      Il vecchio magistrato, che presiedeva la Corte Criminale, lo trattò con molto affetto e tentò invano persuaderlo a discolparsi.

      Quasi l'esimio giureconsulto, sulle prime, mostrava troppo palesemente la sua convinzione circa l'innocenza di Roberto.

      Ma la convinzione fu subito distrutta dal contegno dell'accusato e il giudice divenne più rigido, e forse implacabile.

      Roberto si presentò a' giudici tutto vestito di nero. Era pallidissimo: ma la sua fisonomia onesta, aperta, la gentilezza del suo tratto, il suono della sua voce, l'espressione del suo sguardo contrastavano di troppo con l'accusa.

      La sua tranquillità pareva a' malevoli cinismo; ma gl'intelligenti, che lo vedevano senz'ombra di spavalderia, si sentivano inclinati a scernervi un indizio di sicura coscienza.

      Fra i testimoni comparve naturalmente Enrica, attesa e ascoltata con un'impazienza febbrile.

      Più di tutti, siccome il lettore può comprendere, era impaziente di rivederla Roberto.

      Anch'essa comparve tutta vestita di nero: quasi tutta coperta di un velo.

      Alle domande fattele studiò di mostrare che non potea rispondere: finse le mancasse la forza: dette in un pianto dirotto.

      Alla fine, non riuscendo a ottenere ch'essa parlasse, il presidente lesse la deposizione scritta, e le domandò se ella la confermasse.

      Col capo fece cenno di sì, e molto risoluta.

      Lasciamo immaginare al lettore qual fosse l'animo di Roberto, che non la perdeva di veduta e ne seguiva l'interrogatorio con ineffabile perplessità.

      —Non basta,—disse il presidente, con molta affabilità, alla duchessa,—accennare con gesti: la sola prova per la Corte risulta dalla affermazione orale esplicita. Debbo, dunque, domandare a V. S. dichiarazioni precise.

      La giovane duchessa non si smarriva.

      C'era, tra i giudici, un sapiente: il conte Guicciardi. Di nobilissima famiglia, le cui sostanze si erano molto assottigliate, il conte avea seguito con grande ardore lo studio delle leggi. Era un degno discepolo, a non dir un degno continuatore di quegli esimii giureconsulti della illustre scuola napoletana, alcuni dei quali alla sapienza accoppiarono l'amor di patria, e ne morirono martiri.

      Il conte osservava con molta attenzione la duchessa. Egli non avea mai veduto chiaro in questo processo; sulle prime avea gridato che si faceva ingiustizia a un popolano, a un uomo di umil condizione per adulare la grande aristocrazia napoletana.

      Ma il conte era tanto pusillanime quanto era dotto: e un gentiluomo, ben accetto al Principe, gli susurrò all'orecchio: cessasse dal turbare i colleghi con dubbi che acquistavano autorità perchè da lui mossi: esser giunta al Sovrano la voce della sua discrepanza coi colleghi: e averla S. M. in un colloquio familiare energicamente riprovata: non si compromettesse più oltre.

      Il conte non avea la forza, la virtù di que' giureconsulti napoletani che avean saputo, per la libera parola, per obbedire alla coscienza, sfidar il patibolo, e salirvi con animo intrepido: e fermò in sè di aver prudenza: in certe congiunture consigliera vilissima.

      Pure, egli ch'avea molti generosi istinti non seppe in tutto acconciar l'animo a quella parte muta, devota, che facea di lui, in fondo, un carnefice.

      Il contegno della duchessa avea ribadito i dubbi del giovane e acuto magistrato.

      Non la perdeva d'occhio un solo istante.

      La smania di scoprire la verità, nient'altro che la verità, in quel punto lo dominava e gli facea dimenticar tutto il resto.

      Avrebbe voluto interloquire; lo riteneva per allora, un leggero riguardo verso il presidente.

      Una o due abili domande avrebber modificato l'esito del processo: Enrica si sarebbe imbarazzata: sarebbe stato facile cogliere in mendacio la giovane duchessa.

      Essa guardava con terrore que' magistrati, temendo che la sottoponessero alla tortura di un interrogatorio minuto: ma sempre padrona di sè, anche ne' più spinosi frangenti, si volse con un'occhiata molto significativa all'avvocato della famiglia Squirace, costituitasi parte civile.

      L'avvocato era un vecchio vagheggino, musicista, poeta, e a cui l'occhiata di una donna bastava per incitarlo alle maggiori follie.

      Egli vide scintillare traverso il velo, assai rado, i begli occhi di

       Enrica: e venne subito in soccorso di lei.

      —Faccio osservare all'onoratissimo presidente,—egli disse,—che la signora duchessa è in uno stato di salute molto precario.

      Enrica era floridissima, dacchè credeva essersi sbarazzata di Roberto e avea accettato il corteggiare del principe di Gorreso, suo fidanzato.

      —Io domando alla Eccellentissima Corte che voglia tener conto trattarsi di una gentildonna giovanissima, vissuta sinora in abitudini verginali, nella castità, nella purezza degli affetti domestici: d'una giovane gentildonna, che ha veduto dar morte, atrocemente, sotto gli stessi suoi occhi, a un amico della sua famiglia: e, credo, a un suo probabile fidanzato…. Essa non è ancor guarita dal colpo che allora riceveva…. L'Eccellentissima Corte insistendo potrebbe cagionare un deliquio, peggiorare le condizioni già gravi della gentildonna: essa è venuta qui accompagnata da suo padre e dal medico della famiglia….

      —La signora duchessa,—tornò a dire il presidente,—conferma, dunque, la sua deposizione scritta?

      —Sì,—rispose nettamente questa volta Enrica che vedeva necessario l'uscir presto da tali angustie, e voleva profittare dell'aiuto portole sì destramente.

      —Ha ella veduto il nominato Roberto Jannacone gettare dal ponticello, detto dell'Inferno, nel parco di Mondrone, il conte di Squirace?

      —Sì…. l'ho veduto!—rispose audacemente Enrica. Roberto teneva il volto nascosto fra le mani; il suo cuore si spezzava negli sforzi ch'egli faceva per contenersi.

      Il conte Guicciardi non potè tacere più a lungo e mormorò al presidente:

      —Nella deposizione scritta manca una parte

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