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quando sarà riedificata, e mi saprete dire s'ella non sarà [pg!26] divenuta la più gran meraviglia del mondo cattolico. —

      Così dicendo, il pellegrino fece col capo il cenno di chi ha nominato una cosa sacra. Mastro Benedicite non aggiustava fede a' suoi orecchi medesimi. Quell'umile e costumato pellegrino, che parlava con tanta reverenza cristiana, era egli colui che di là dal ponte levatoio di Roccamàla gli aveva pur dianzi parlato, a lui mastro Benedicite, in sì beffarda maniera? Un uomo avveduto avrebbe, a dir vero, notate sulla faccia del pellegrino, segnatamente ai lati delle labbra, alcune rughe, nelle quali usa nascondersi l'ironia, e in certe guardature, che accompagnavano le parole, sarebbe colto in flagranti lo scherno. Ma il buon falconiere, quantunque sapesse di latino, non era uomo da intendere questi nonnulla; argomentate poi se potesse coglierli a volo! Egli era come trasognato, e già si pentiva in cuor suo di aver così male inteso, e peggio giudicato, un uomo che faceva testimonianza di tanta religione.

      — E come si vive a Roma? — domandò Fiordaliso. — Chi non ha sulle spalle i gravi carichi della santa religione, non ci morrà mica di noia?

      — Dio ne guardi, messere! Roma è l'Atene d'Italia. Sua Santità è un uomo co' fiocchi; vo' dire un degno vicario di Dio. Il redentore del mondo è rappresentato laggiù come si addice a così alto barone. E il Machiavelli, con la sua Mandragora! Quella è una commedia! Il papa ha già voluto udirla recitare due volte. E il Bembo! Che piacevole uomo e che latinista di vaglia! Figuratevi, nobili messeri, ch'egli ha scritto ad un amico suo, non avesse a leggere le epistole di san Paolo, per non guastarsi la buona [pg!27] latinità! La mercè di questo valentuomo, che è segretario ai brevi, gli oracoli del Vaticano sono espressi con una eleganza, che non fu mai la maggiore. La vergine Maria si chiama Dea Lauretana; papa Leone è assunto al pontificato jussu deorum immortalium; celebrar la messa da morto si chiama litari Diis manibus, ed altre frasche simiglianti, che capirà per bene mastro Benedicite, il quale ho udito essere molto intendente della lingua del Lazio. —

      Lo strozziere, toccato nel suo debole, chinò gli occhi modestamente sul tagliere. La diffidenza, che gli era nata in petto contro il forastiero, incominciava ad andarsene in fumo.

      — Voi dicevate, messer pellegrino, della basilica di San Pietro.

      — Affè, sarà quella un'opera stupenda. Figlio di Lorenzo il Magnifico, Leone X non farà che cose magnifiche. Ma ci bisognan danari.

      — Nulla res sine pecunia! — sentenziò Benedicite.

      — Sì, veramente, e a cotesto si pensa per l'appunto ora, e chiunque aiuterà alla grand'opera avrà indulgenze a macca.

      — E voi, messer pellegrino, — entrò a dire il Conte, — se ben m'appongo, ne avete in buon dato.

      — Sì, messer lo Conte, ne porto attorno per cui piacciono. Vo in Monferrato; di là passerò in Lamagna, dove spero il negozio abbia a prosperare più assai che in ogni altra parte d'Europa. Ahimè, sono stato un grande scioperato fino ad ora, e mi bisogna racquistare il tempo sprecato, con qualche opera buona. Ma già questi non sono discorsi da farsi a mensa, e in compagnia di tanti orrevoli cavalieri. [pg!28] Proseguite, di grazia, i vostri interrotti ragionari, se pure ad un forastiero è permesso di udirli.

      — Che diamine! Noi stavamo appunto per chiedere una ballata a Fiordaliso, il nostro bel paggio, che la pretende a poeta, e, in fede mia, non senza ragione.

      — Mi sarà grato udire ciò che bisbigliano le Muse nell'orecchio di un sì leggiadro garzone.

      — Oh, non vi aspettate grandi cose, messer pellegrino! — rispose Fiordaliso, che si era fatto rosso come una brace. — Io non ho studiato d'arte poetica, e vo strimpellando il liuto come un menestrello villereccio.

      — Suvvia, Fiordaliso, non ci buttiamo giù di questa guisa! Il nostro ospite avrà forse udito più valorosi trovatori che tu non sia; ma io metto pegno che egli non rimarrà al tutto scontento dei fatti tuoi. Sentiamo dunque la tua ballata! —

      Il paggio non si fece pregare più oltre, e andato a pigliare in un cantuccio il liuto, incominciò a trarne parecchi accordi, i quali volevano proprio dimostrare come il suonatore fosse stato troppo modesto, paragonandosi ad un menestrello giramondo. Quindi, giusta il costume degli antichi trovatori, non ancora perduto in que' paesi feudali, si fece a cantare in questa maniera:

      — Conte Folco è prode e bello,

      Esemplar de' cavalieri.

      Fido albergo è il suo castello

      Di dugento balestrieri.

      Cento lance ei mette in guerra.

      È possente e paventato;

      Ma più ancora avventurato

      Dell'affetto d'ogni cor.

      [pg!29]

      S'è felici in sulla terra

      Fin che regni in terra amor. —

      — Bene, Fiordaliso, bene! — gridò Ansaldo di Leuca.

      E tutti in coro ripeterono il ritornello:

      S'è felici in sulla terra

      Fin che regni in terra amor.

      Il giovinetto proseguì, accompagnandosi cogli accordi del suo liuto:

      — Sulla preda all'aure scaglia

      I falcon più peregrini;

      Pronti in giostra ed in battaglia

      Ha cavalli saracini.

      Lieto il fan di censo opimo

      Le vitifere pendici;

      Ma più lieto i fidi amici

      Che gli fan corona ognor.

      L'uom felice in terra estimo

      Fin che regni in terra amor. —

      — Gli amici, Ugo, tu l'hai udito, gli amici! — disse Enrico Corradengo, dopo che ebbero ripetuto il ritornello.

      — Sì! — rispose Ugo. — L'amicizia è la più bella cosa e la più cara che al mondo sia.

      — Adagio, messere! — gridò Fiordaliso. — Io non ho anche finito.

      — Tira innanzi, dunque, da bravo!

      Incuorato dal plauso della brigata il paggio intuonò la terza strofa:

      — Carlomagno invidia a lui

      Così dolce e lieto stato;

      Ch'ei non è tra' prodi sui

      Più securo e più beato.

      Conte Folco a regio impero

      Ben potria levar le brame;

      Ma più grato a lui reame

      Parve ognora un fido cor.

      Più felice è l'uomo invero

      Se gli arrida in terra amor. —

      — Hai ragione, Fiordaliso! — esclamò conte Ugo. — L'amore accanto all'amicizia, ma un grado più in su. Questo è nella natura delle cose, e voi non ve ne dorrete, amici miei, non è egli vero?

      — No, per mia fè! — rispose Ansaldo di Leuca. — E' bisognerebbe essere egoisti di tre cotte, per dolersene. Le dame anzitutto! Ma ci ha da essere ancora una strofa....

      — Sì, messere; — soggiunse il paggio, — ed eccola appunto:

      — Per lui sol non disumana,

      Disdegnò d'un re l'omaggio

      Valorosa castellana

      Di gran cor, d'alto legnaggio.

      È regina e imperatrice,

      Se tien Folco in suo governo,

      Se per lei d'affetto eterno

      Per lei palpita il suo cor.

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