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baciolla, al core

      Forte la strinse, e impavido rimase.

      Ma passa ancora il nembo struggitore

      E a lui, che nulla sembra aver sofferto,

      Della salute inaridisce il fiore.

      Già bellezza e vigor l'hanno deserto,

      E tabe ria da cento piaghe stilla

      Onde apparisce il corpo suo coverto.

      Ve' donna innamorata! Amor vacilla.

      Ve' cor cui l'uomo non mutevol creda!

      Torse il piede ad un tempo e la pupilla.

      Solo, ognor solo, parta il giorno o rieda,

      Alla brina gelata, al sol cocente,

      Solitario carcame a' vermi in preda!

      Pur gli rimase il raggio della mente....

      Ma udite qual ne fece uso sennato;

      Maledisse all'Eterno, e irriverente

      Gli domandò: «perchè m'hai tu creato?»

      Giunto alla fine della seconda parte, la quale, anzi che un canto, fu una recitazione drammatica, accompagnata da rauchi suoni di corde, il pellegrino fece la seconda sosta.

      La brigata non fiatava; ma il suo silenzio non era [pg!36] per fermo testimonianza di freddezza; chè ben dimostravano il contrario gli sguardi fisi e le labbra ansiosamente tese verso il cantore.

      La imprecazione di Giobbe era stata resa con un accento da mettere i brividi, e più paurosa l'avea fatta il liuto, con un suo accompagnamento beffardo. Poco stante, il pellegrino, facendosi da capo alla cantilena delle prime strofe, ripigliò in questa guisa a cantare:

      Era su in alto splendida festa

      Ed Aporèma fu del cortèo.

      — Orben, signore, dite, che resta

      Del vostro lieto prence Idumèo?

      Povero, infermo, solo, reietto,

      Al suo fattore grida così:

      «Perchè mi desti core e 'ntelletto?

      «Perchè m'apristi le luci al dì?»

      Affè, gran cosa l'esser felice

      Se un sogno all'uomo la vita infiori,

      E raggio d'iride l'ingannatrice

      Zona vi stenda de' suoi colori!

      Felice è l'uomo fin che la fede

      Inviolata nel cor gli sta,

      E il primo intonaco di ciò che vede

      A brani a brani non se ne va. —

      — E tu, Aporèma, forse più lieto

      Sei tu che 'l negro dubbio diffondi,

      Tu che turbandomi l'alto secreto

      Ogni parvenza scuoti e disfrondi?

      Dimmi, te stesso non hai dannato

      A lutto eterno fin da quel dì

      Che in questo sogno viver beato

      Sdegnasti e l'ira mia ti colpì?

      — Il ver parlate, buon sire Iddio;

      In cor non sente gioie Aporèma.

      Nel duol mi cruccio, ma il duolo mio

      Non può speranza vincer, nè tema.

      [pg!37]

      Quanto la vostra mano dispone

      Per me segreti, sire, non ha:

      So quanto valgono cose e persone,

      E niun sul prezzo gabbo mi fa.

      La ballata del pellegrino, e la sarcastica chiusa, fecero una grande impressione sulla nobile comitiva. Gli amici del conte Ugo e i suoi vassalli si guardarono in viso trasognati; indi tornarono a guardare il pellegrino, sulle cui labbra scorgevasi ancora il sogghigno di Aporèma. A mastro Benedicite, allora più che mai ricaduto in balìa delle sue superstiziose paure, venne in mente che fosse proprio lui quello spirito maligno del quale aveva cantate le imprese; epperò il degno strozziere se ne rimase mutolo, a capo chino, fantasticando sulle conseguenze di quella visita notturna, e non badando punto a citazioni latine; segno che il suo turbamento era grave.

      Anche il conte Ugo era muto, sebbene non partecipasse alle ubbìe del suo fidato vassallo e non vedesse nell'ospite di Roccamàla che un uomo come tutti gli altri suoi commensali. La filosofia dello sconosciuto lo aveva profondamente commosso, ed egli era rimasto inerte sulla scranna, con lo sguardo fiso ma disattento, come di chi sembra aguzzar l'occhio verso un punto dello spazio, e non fa in quella vece che seguire il corso vagabondo d'immagini confuse, le quali non hanno per anche presa la forma di un pensiero.

      Il primo a rompere quel silenzio, e direi quasi quell'incantesimo, fu il biondo Fiordaliso, pieno il cuore della sua giovanile baldanza.

      — Leggiadra è la vostra ballata, messer pellegrino; [pg!38] ma egli mi sembra che la storia da voi narrata non sia molto d'accordo con la Bibbia, segnatamente nella chiusa. —

      La nota del paggio era girata per la mente a tutti i commensali; epperò eglino, udendola espressa dalle parole dell'adolescente, gli tennero bordone con un cenno del capo.

      Ma il pellegrino non era uomo da darsi vinto per simili frasche. Crollò le spalle, fece una smorfia e rispose con aria benigna e compassionevole:

      — Ah! perchè voi non avete letto che la Volgata, messer Fiordaliso. La storia vera è quella che v'ho raccontata io, e si legge nel testo caldaico della Vaticana. Nella Volgata s'è tenuto altro metro, per tema che la lettura avesse a riuscire troppo sconsolante; della quale sollecitudine per le coscienze timorate vuolsi saper grado alla Chiesa.

      — Per ventura le sono finzioni poetiche dei tempi andati! — disse Ottone di Cosseria.

      — Sì, e non possono mutare il verace aspetto delle cose; — soggiunse Enrico Corradengo. — L'amicizia, a malgrado dei vostri biblici esempi, è un alto e durevole affetto.

      — Giobbe lo sa, mio nobil sere! — esclamò il pellegrino.

      — Ah, lasciamolo in pace! — rispose il Corradengo. — Io, per me, tengo che se egli avesse vissuto ai tempi nostri, tra cavalieri, nessuno degli amici suoi lo avrebbe abbandonato nella disgrazia, e ognuno si sarebbe recato a ventura di spartire con lui. —

      Il sogghigno di Aporèma si dipinse anco una volta sulle labbra del pellegrino. Il Corradengo, turbato, non disse più altro.

      [pg!39] — E non si dirà nulla della donna del principe d'Idumea? — entrò Ansaldo di Leuca. — Io mi penso che questa dama, se pure c'è stata, ed ha operato secondo il detto della vostra canzone, messer pellegrino, non era donna di gentil sangue. L'amore è fortissimo e nobilissimo affetto, che vince ogni ostacolo, che sopravvive ad ogni sciagura, come c'insegnano esempi molti e recenti. Io vi prego, messere, se avete caro il vostro buon nome di trovatore, a non farvi udire nè da Matilde, contessa di Sciampagna, nè dalla marchesina di Monferrato, nè da Giovanna di Torrespina, la più savia come la più leggiadra gentildonna di cui cavaliero portasse mai i colori. —

      Al nome della castellana di Torrespina, l'ospite sconosciuto fece un volto più umano, come chi intenda ad entrare nelle grazie di qualcheduno, o non voglia, per cortesia, far contro a giudizii che risguardano le persone.

      — Tolga il buon sire Iddio, — rispose quindi ad Ansaldo, — che io voglia farmi udire a cantar sul liuto fuori di questa nobil brigata. Vi ho poi detto, messeri, che io non sono trovatore. La canzone di quel biondo alunno delle Muse mi ha messo in vena, e mi sono provato anch'io a dirvi la mia, tanto per fargli intendere quello che una lunga esperienza ha insegnato ad un povero vecchio; che tale io mi sono da lunga pezza,

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