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à monseigneur Saint-Hubert, et gagnerons un vaillant chevalier pour notre joyeuse maison de France. —

      Ma il conte Ugo non potè, siccome pur era desiderio dello zio, tenere lo invito, in modo tanto cortese a lui fatto dai reali di Francia. Di fama, di potenza e di onore, egli aveva quanto bastasse ad orrevole cavaliero del suo tempo; e poi, conte Ugo non avrebbe lasciata l'Italia per il trono del mondo se mai Domineddio glielo avesse profferto; imperocchè egli era amato dalla più bella tra le creature umane, da Giovanna di Torrespina, da colei che celebravano per leggiadria e valore quanti erano cultori della gaia [pg!5] scienza, e che lasciò ella stessa, a testimonianza del suo ingegno, le più graziose ballate in quella lingua provenzale, che era in fiore per tutta Italia, innanzi che l'amante della bellissima Avignonese facesse della lingua italiana l'idioma d'amore.

      Per simiglianti venture il conte Ugo non saliva punto in superbia, che borioso non era, nè sciocco. Prode in armi, aveva combattuto daccanto al padre, e non ne menava alcun vanto; era misurato ne' modi, schietto, umano e gentile. Ed ognuno, ricordando come una indovina, chiamata dalla buona contessa Alda sua madre alla culla del bambino, avesse pronosticato: «tuo figlio sarà un uomo felice», ripeteva che il conte Ugo era felice davvero, e, quel che più monta, era degno di esserlo.

      Ma cotesto per l'appunto faceva venire i brividi, ogni qual volta se ne parlasse, a mastro Benedicite, lo strozziere, o falconiere che dir si voglia, dei signori di Roccamàla.

      E perchè mo'? Nato e cresciuto nel castello, il vecchio mastro Benedicite amava il signor suo, sto per dire più dei suoi falconi, i quali falconi egli amava più dei suoi occhi medesimi. Egli era un quid tra il servo e il maggiordomo, tra il castaldo e il comandante del presidio; era insomma il ser faccenda di casa; il vecchio arnese della rocca, che aveva libertà di parola come un pazzo. Stato particolare che si spiegherà agevolmente col dire che egli era fratello di latte del vecchio conte Ruberto; che aveva salvata la vita, o quasi, alla contessa Alda, un giorno che il suo ronzino le aveva vinta la mano, e che, nato strozziere, perchè tale era suo padre, e tale suo avolo, aveva pure studiato un po' di latino sui vecchi messali [pg!6] dei frati del paese, tanto da essere creduto uomo di dottrina da tutto il vicinato, e degno di intuonare il benedicite alla mensa dei suoi padroni, alla quale era ammesso, sebbene ad un desco più basso. Ora che i lettori sanno anche per qual ragione il nostro valentuomo si chiamasse mastro Benedicite, noi finiremo il bozzetto col dire che egli sapeva il mestier suo a menadito, e (poichè bisogna confessar tutto, il male come il bene) ne andava superbo assai più che non fosse consentito dalla cristiana umiltà.

      E adesso che lo si conosce intus et in cute, co' suoi vizi e con le sue virtù, e non si può dubitare che non amasse il conte Ugo, come va, chiederete, che a mastro Benedicite venissero i brividi, ogni qual volta si toccasse della felicità del padrone?

      Qui giace nocco, lettori amorevoli, e se vorrete tirare innanzi a leggere con quella pazienza medesima che io a scrivere, farò di chiarirvi il negozio tra breve, senza guastar l'ordine del racconto, il quale ora mi costringe a prendere una viottola di fianco. Parrà una digressione, un perditempo, e non è che una scorciatoia, per la quale faremo un viaggio e due servizi.

      Il dotto strozziere se ne stava nella sua falconeria, comodo edifizio accanto alla seconda porta della rocca, dove erano tutte le generazioni di falchi e d'astori, ed ogni altro arnese attinente alla caccia. Quella nobile famiglia di bestie aveva faticato di molto nella giornata, poichè il conte di Roccamàla era andato con numerosa brigata a falconare, ed aveva cavalcato per una ventina di miglia, fino al castello di Torrespina, facendo gran caccia di uccellame e selvaggina. Il [pg!7] buon nome degli alati cacciatori di Malta era stato nobilmente sostenuto al cospetto di leggiadre dame e cavalieri, e mastro Benedicite raddoppiava il cibo a' suoi figliuoli, com'egli soleva chiamarli, dando loro le interiora, cuori e fegatelli di starne, lepri, ed altri volatili e quadrupedi, che erano stati feriti a morte dai rostri di quelle bestie valorose.

      — Optime, fili mi! Tu non hai nessuno che possa starti a paro. Nullus tibi se conferet heros, sebbene tu abbia già i sessanta suonati. Tò, mio dolce amico, questo è per te. —

      Queste parole, erano rivolte ad un bel falco randione, che mastro Benedicite s'era recato amorosamente sul pugno, offrendo alle sue allegre beccate uno spicchio di carne sanguinolenta. Era quello il beniamino dello strozziere, e degnamente rispondeva alla preferenza affettuosa di mastro Benedicite, facendo il fatto suo per modo da non toccargli neppure il sommo delle dita, e interrompendo ad ogni tratto il suo pasto (notate gran tenerezza) con un picciol grido di gioia e di gratitudine.

      — E tu, che fai costì, manigoldo? — borbottò poco stante mastro Benedicite, facendo la voce tanto ruvida, quanto era stata dolce dapprima. — Metto pegno che ancora non sarà nulla a suo posto, nè lunghe, nè cappelli.

      — C'è tutto, zio, ed ho anche ripulito per bene il pavimento; — rispose, senza scomporsi punto per quella infinita ruvidezza, un biondo adolescente, che era venuto allora a stringersi ai fianchi del vecchio falconiere.

      — E la lezione?

      — La so.

      [pg!8] — Tanto meglio per te, se tu di' il vero, fannullone. Orvia, sentiamo un tratto.... Quante sono le generazioni de' falchi? —

      Il fanciullo stette un po' sopra pensiero; quindi rispose a mezza voce:

      — Sono sei....

      — Ah, ah! — gridò mastro Benedicite, in quella che proseguiva a dare il pasto alle sue bestie — certuni lo dicono, ma cotestoro, ragazzo mio, non sanno neanco l'abbicì della falconeria.

      — Sono sette; — si provò a dire il fanciullo.

      — Sette, sì certamente, sette e non sei. La prima?

      — Il randione.

      — Adagio, adagio a' ma' passi e non mettiamo il carro davanti a' buoi. Si va dal minore al maggiore, de minore ad majorem. Il primo legnaggio sono lanieri, che sono i più vani: molta apparenza e poca sostanza. E il secondo?

      — Il secondo, son quelli chiamati pellegrini.

      — Sta bene, e perchè?

      — Perchè persona non può trovare il loro nido; anzi sono presi come in pellegrinaggio, e sono molto leggeri a nutrire, cortesi e di buon'aria, e valenti e arditi.

      — Bene, bene! — borbottò il falconiere — e il terzo?

      — Il terzo sono falconi montanini, che si nascondono dappertutto, e quando son nascosti non fuggono più; il quarto falconi gentili; il quinto....

      — Non correr già a precipizio! Festina lente, ragazzo mio! Che cosa sono anzitutto i falconi gentili?

      Il fanciullo era rimasto a secco. La voglia di far presto gli aveva fatto perdere il filo.

      [pg!9] — Ma.... — disse egli — i falconi gentili sono.... sono....

      — Sono quel che tu non sai, per quanto io vedo. E quello che tu non sai, gli è che i falconi gentili sono nobilissimi, prendono la gru, e non hanno che un male, cioè di volar troppo lungo, per modo che si bisogna averne buon cavallo per seguirli, e quassù per i nostri greppi non approderebbero. Ora al quinto, e bada a non incespicare.

      — Il quinto — proseguì il nipote — son gerfalchi, li quali passano tutti gli uccelli della loro grandezza, e sono forti, fieri, ingegnosi e bene avventurati in cacciare e in prendere; il sesto è il sagro, molto grande e somigliante allo sparviero.

      — All'aquila! all'aquila! — interruppe mastro Benedicite. — Vedi mo', Anselmuccio, questo è appunto un sagro; o dove ti sembra egli che rassomigli allo sparviero? Quello che tu di' è l'astore, non già il falco sagro.

      — All'aquila; — soggiunse il ragazzo, risovvenendosi, — ma, degli occhi, del becco, delle ali e dell'orgoglio somigliante al gerfalco. Il settimo....

      Mastro Benedicite non aveva messo a tortura il nipote, che per farlo giungere a quel settimo.

      — Eccolo, il settimo, — interruppe egli con aria di trionfo — eccolo, il randione, cioè, il signore e re di tutti

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