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E lei cinquantasette.

      Padre Agatino e la principessa si guardarono.

      — C'è già l'ambo. E settanta, matrimonio.

      I numeri non venivano fuori, invece le citazioni dei creditori continuavano ad ammonticchiarsi sul tavolo di don Peppino, che pensava ad un racconto per l'Imparziale, che il Commercio avrebbe poi riprodotto. Così cominciò a parlarsi dell'espropriazione del palazzo Roccasciano.

      Giusto, la principessa andava sempre peggiorando e non riusciva più a levarsi di letto. Ella voleva fare un voto alla Madonna del Carmine, cercava una penitenza molto grave da infliggersi, perchè la Bella Madre ne la rimeritasse, facendole ricuperar la salute.

      — Ecco, io non giuocherò più il venerdì; non toccherò neppure una carta col dito!

      Il venerdì, come padre Agatino e il marchese volevano giuocare, ella chiedeva che almeno si mettessero vicino, in modo da poter seguire le vicende della partita. Ai bei colpi, alle vincite replicate, gli sguardi smorti sul viso scarnito le si accendevano, le braccia magre si districavano di sotto il monte delle coperte, annaspando verso le carte.

      — Un giro... un giro soltanto...

      Si abbatteva ancora di più, ricascava sfinita sugli origlieri roventi, rifiutava le medicine per grandi bicchieri d'acqua che non riuscivano a spegnere la sua sete ardente.

      Nessuno fra quelli che si erano divertiti per tanto tempo a sue spese veniva ora a trovarla; suo nipote Fornari non poteva più salir le scale e solo la Giordano continuava a trascinarsi dietro le figliuole e suo marito don Felice, per dire che era stata dalla principessa e per pigliarsela con la Morlieri che, a darle retta, aveva rubato D'Errando a sua figlia Antonietta.

      — Ma il barone se l'è presa per i denari, e glie ne fa vedere di tutti i colori, e la picchia perchè vuol far lui da padrone. Bene le sta! Bisognava sentirla sentenziare: «La sorte è di chi se la fa!» La sua se l'è fatta lei, non c'è che dire!...

      La principessa non ascoltava più quelle chiacchiere e si lagnava, sordamente.

      Il medico, qualche giorno dopo, disse al duca che non c'era più niente da fare, altro che pensare all'anima.

      — Sia fatta la volontà di Dio! — rispose la principessa quando l'avvertirono; ma lei si sentiva un po' meglio.

      Mentre padre Agatino e il marchese facevano la partita, nell'altra stanza, e il pretore Restivi russava sulla poltrona, la principessa chiamò la cameriera, si fece sollevare sopra un monte di cuscini e chiese un mazzo di carte.

      — Vostra Eccellenza che cosa fa mai!...

      — Mi sento meglio, Fanny... voglio svagarmi... A che giuoco sai giuocare?

      — Eccellenza...

      — Alla scopa?

      — Un poco, Eccellenza...

      E incominciarono la partita. A un tratto i brevi rintocchi di una campanella risuonarono in lontananza: si avvicinarono, sembrarono estinguersi sotto il portone, ripigliarono più squillanti per le scale insieme con uno scalpiccio di passi, togliendo i giuocatori dal loro tavolino, facendo accorrere i servi e rabbrividire la principessa in fondo al suo letto, su cui il mazzo delle carte si sparpagliava, riversandosi da tutte le parti...

      Per qualche giorno ancora l'ammalata subì alternative di migliorie e di peggioramenti. Ora non parlava quasi più e restava a lungo assopita in profondi letarghi. Fanny che la vegliava ne profittava per andare a far toletta; padre Agatino e il marchese nella stanza accanto, per riprender la partita. Giusto padre Agatino perdeva, da più giorni, costantemente, e doveva già qualche migliaio di lire al suo compagno. Mutava di posto, faceva le corna al mazzo di carte, per rompere la disdetta, ma inutilmente.

      — Io non giuocherò più con voi! — gridava esasperato.

      — Ma chi vince? — disse il marchese — Io non rientro ancora nel mio! — E andò via perchè aveva un convegno con l'ingegnere per la condotta in città dell'acqua delle Settefonti: questa volta l'impresa era d'esito certo.

      Padre Agatino passò dalla principessa. Dal fondo del suo letto, lei volgeva lunghi sguardi nella solitudine dello stanzone, e appena vide il monaco si agitò, come volendo dire qualche cosa.

      — Come vi sentite?

      — Meglio... meglio... — rispose con un filo di voce.

      — Siete svegliata da un pezzo?... Perchè non avete chiamato?... Volete nulla?...

      Gli sguardi della principessa si rivolsero verso il comodino. Padre Agatino ne aprì la cassetta e ne cavò un mazzo di carte.

      — Questo?... Giuochiamo?...

      — Sì, un poco... aiutatemi a sollevarmi.

      — E i gettoni?

      — Lì, pigliate quelle pasticche.

      — Quanto valgono?

      — ... Cinque lire...

      E cominciarono a giuocare. La principessa perdeva, perdeva, perdeva; tutte le sue pasticche passavano al suo compagno, una dopo l'altra, con brevissime soste. Gli occhi di lei luccicavano, le guancie si accendevano di riflessi di fuoco, i polsi e le tempie battevano violentemente, tutta la persona tremava.

      Padre Agatino fece nuovamente carte. La principessa, che ebbe un quattro, interrogò il compagno collo sguardo, esitante.

      — Do carte — disse quello.

      — Carte...

      La principessa coprì la nuova carta con l'altra, che ritirò lentissimamente.

      — Nove! — disse scoprendo il suo giuoco.

      — Nove! — rispose padre Agatino, mostrando il suo.

      — Che... disdetta!... — E ricadde pesantemente, cogli occhi sbarrati.

      Padre Agatino chiamò gente, irritatissimo. Avrebbe dovuto vincere qualche centinaio di lire e gli restava soltanto un po' di zucchero in mano.

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