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in preda ad una inquietudine: guardava tutt'intorno, sbagliava il suo giuoco. Alla scampanellata che risuonò a un tratto:

      — Fanny, chi è? — gridò alla cameriera, impaziente.

      E mentre il cavaliere salutava i nuovi venuti, il marchese Sanfilippo e il padre Agatino, che si disponevano in giro, la principessa pareva sulle spine, accumulava sviste su sviste, di sotto le carte faceva segni d'intelligenza al marchese e al monaco, che rispondevano con altri piccoli cenni, come per dire:

      — Pazienza!

      — Che seccatore!

      Il cavaliere continuava a giuocare, non accorgendosi di niente.

      — Che cos'avete a desinare? — gli domandò il marchese, mandandolo via cogli occhi.

      — Io? Nulla! Un filo di spaghetti al sugo, un merluzzo, due cime d'asparagi, una braciuola, mezzo pollo, un pan di Spagna...

      La principessa adesso stava a sentire, estatica, cogli occhi luccicanti e la bocca socchiusa, dimenticando le carte nell'ammirazione di quello stomaco fenomenale.

      — Come t'invidio! Io non digerisco più!

      — Oh, non è che mangi molto! — disse il cavaliere, alzandosi a stento — Mangio come tutti gli altri galantuomini; soltanto pretendo della roba buona. È così difficile, oggi che ogni lavapiatti si dà l'aria d'un cuoco! C'è più del sugo, che è il sugo? Vi fanno invece una risciacquatura da guadagnarci un'indigestione. Voi sapete come si fa, il sugo? Si piglia la conserva di pomidoro...

      E, avviato sul suo tema favorito, il cavaliere non trovava più il verso di smettere.

      — Basta, per carità! — l'interruppe padre Agatino — Ce lo direte quest'altra volta!

      Appena quello fu andato via e la porta gli si richiuse dietro, la conversazione cessò. Intorno al tappeto verde, con un mucchietto di biglietti dinanzi, gli occhi intenti, le faccie infocate, le mani nervose, quei tre rifacevano i loro conti, ripigliavano la partita interrotta la vigilia, non sapevano più staccarsi dai loro posti. Ma l'uscio di casa Roccasciano non stava mai chiuso dieci minuti di seguito, e ad ogni scampanellata i giuocatori sospendevano la partita, guardando la porta, inquieti. Fanny, la cameriera, non annunziava nessuno, badando a pettinarsi, a lisciarsi, o a scherzare col servitore, col cuoco, con Agostino Giarrusso, il contabile; e la gente, certe volte, andava via stanca di suonare, credendo che la casa fosse deserta. Don Ferdinando, duca di Santa Cita, il cugino della principessa che veniva ogni giorno a desinare da lei dopo che il giuoco lo aveva ridotto povero in canna, scampanellava talmente forte ed a lungo, che tutti i servi correvano ad aprirgli; ma i giuocatori non si prendevano soggezione di lui. Lacero, unto, egli si metteva vicino alla cugina, e gli occhietti grigi gli si accendevano nella faccia scarna, covando i denari, seguendoli ardentemente nel loro peregrinare pel tavolo, dimenticando perfino la sua fame.

      Nessuno diceva una parola, da principio. In capo a un quarto d'ora la principessa perdeva la testa, non distingueva più le carte, vedeva partire l'uno dopo l'altro i biglietti che teneva davanti; padre Agatino diventava livido, convulso; il marchese si abbatteva, accusava un forte dolor di capo, tentava di spegnere a furia di grandi bicchieri d'acqua con anice l'arsura che lo tormentava.

      Poi cominciavano a lamentarsi, tutti allo stesso modo, di perdere, di perder sempre.

      — Questo si chiama spogliar la gente! — esclamava padre Agatino, irritatissimo.

      — Dite a me? Non vi basta di portarmi via ogni cosa? Ancora un poco e dichiaro fallimento.

      — Se fallirete, è colpa della vostra testa bislacca!

      — E la vostra farina il diavolo la fa andare in crusca!

      Gli animi si esasperavano; il marchese accusava padre Agatino di rovinarsi con donna Rosalia, la sua ganza; questi metteva in ridicolo la smania delle speculazioni con le quali il marchese minava la sua fortuna.

      — Quanto avete guadagnato coi famosi agrumi?

      — Gli agrumi sono per terra; ora ho aperta una fabbrica d'agro cotto.

      — E domandate dove sono le vostre vincite? La fabbrica se le mangia, col resto.

      — E donna Rosalia vi ridurrà in camicia!...

      — Ma dunque, son'io che vinco? — chiedeva malinconicamente la principessa. — Da un mese non vedo una carta!

      Nondimeno continuavano, fino a sera, al lume delle candele, senza decidersi a smettere.

      — Gli ultimi tre giri? — proponeva di tanto in tanto la principessa.

      — Gli ultimi.

      Finiti quelli, si guardavano in faccia.

      — Un altro?

      — Un altro.

      Così, ogni giorno la principessa andava a desinare un poco più tardi. La sua tavola era sempre apparecchiata con molti posti; ella aveva spesso dei commensali: ora il cavaliere Fornari, ora il marchese, ora qualche altro.

      — È una cosa disperante, non ho più appetito!

      E si rimpinzava di droghe, di digestivi, mangiava per forza, si levava di tavola più disgustata di prima. Invece il duca di Santa Cita diluviava per due, con un appetito insaziabile; restava a tavola a fare il chilo, allentando le cinghie dei calzoni e del panciotto, pel troppo cibo.

      La principessa andava a buttarsi un istante sul letto, ma non le davano il tempo di pigliar riposo. Appena notte, cominciava a venir gente: una processione continua di persone di ogni genere: vecchi abituati a prendere il caffè da lei e a sonnacchiare sui divani, lunghi sdraiati, con un sigaro spento fra le labbra: intere famiglie che prendevano posto intorno al tavolo del sette e mezzo, o della tombola, o della bassetta, secondo la stagione, o si sparpagliavano per le vaste sale dell'antico palazzo, come in casa propria, disponendo il modo di passar la sera; e poi certe figure enimmatiche, provinciali, forestieri che nessuno sapeva chi fossero, neppure la padrona di casa, la quale intanto stava sulle spine, annoiandosi al giuoco piccolo, andando di tanto in tanto a dare una capatina nella stanza appartata dove il marchese, padre Agatino, il dottor Felicetta e qualche altro facevano la forte partita a primiera.

      — Principessa, non giuocate?

      — Come fare, con tutta questa gente...

      — Un giro soltanto!

      Lei non sapeva resistere alla tentazione, perdeva, tornava in salotto tutta turbata, restava un istante per scomparire nuovamente e ritornare a pigliar posto al tavolo della tombola, nascondendo male la sua contrarietà.

      — Non capisco come possiate divertirvi a questo giuoco! — diceva a donna Cecilia Morlieri, mettendosele a fianco.

      — Il più bel giuoco è quello a cui si vince!

      Come donna Cecilia era in istrettezze, da tanto che s'era divisa dal marito, comperava una sola cartella per volta, non arrischiava mai più di due soldi e lasciava il suo posto appena aveva una vincita, anche minima.

      — Il bel giuoco dura poco!

      Dall'altro lato del tavolo Giorgio Furleo e la signorina Marco giuocavano in società, ogni sera, da parecchi anni.

      — Come sono seccanti! — diceva la baronessa de Fiorio alla vicina, in modo che tutti la sentivano.

      — È una cosa che sta malissimo, e se le mie figliuole si permettessero altrettanto, io le piglierei a scapaccioni, dinanzi a chiunque! — rispondeva la Giordano, per fare intendere che le sue ragazze avevano tutt'altra educazione.

      Intanto, esse erano circondate da tutti i giovanotti della società. Angiolina, la più piccola, benchè sembrasse ancora una bambina, teneva fronte ai più arditi; Antonietta rispondeva alle occhiate del tenente Costanzo, di nascosto, perchè sua madre non lo trovava un partito abbastanza vantaggioso.

      — Se ti vedo ancora attorno quel pezzente!... Uno che non si sa come

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